80ª Mostra del Cinema di Venezia: i film in concorso, tra orrori e capolavori

Sulla laguna tramonta il sole dell’80ª Mostra Internazionale d’arte cinematografica, tornano in letargo le sale allestite dalla Biennale, i motori dei battelli portano via le (poche) stelle del cinema e gli influencer (decisamente molto più numerosi degli attori presenti sul red carpet), e il pubblico torna alla vita di tutti i giorni arricchito di quanto di meglio il cinema mondiale porterà sugli schermi, cinematografici e televisivi, durante la fine del 2023 e per tutto il 2024.

Tra i film vincitori di questa edizione impossibile non citare Poor Things di Yorgos Lanthimos, premiato con il Leone d’oro, un film unico nel suo genere, citazionista, carico di messaggi e metafore, intenso e forse a tratti un po’ eccessivo, ma a suo modo semplice e gradevole anche ad un pubblico di, mi si passi il termine, “non coltissimi”: il film scorre, in due ore e ventuno di immagini sorprendenti, che passano dal bianco e nero al colore (stratagemma usato anche da altri film presentati quest’anno per indicare gli eventi trascorsi nel passato, neanche fosse l’ultimo ritrovato della tecnologia), e fondendo lo steampunk al liberty, coccolando lo spettatore con fondali e costumi quasi fiabeschi, spesso messi in risalto dal grandangolo e CGI. Cast stellare: Emma Stone si mette in gioco in tutto e per tutto, in un ruolo molto diverso da quelli affrontati in precedenza, recitando con un’espressività volutamente esagerata, così come Mark Ruffalo, la vera stella comico/tragica del film, e Willem Dafoe, comodissimo nel ruolo del folle scienziato che dà vita ad un mostro di Frankenstein in chiave contemporanea.

Una standing ovation per il giapponese Ryūsuke Hamaguchi e per il cast presente in sala, per Aku Wa Sonzai Shinai (Il male non esiste), film in concorso e vincitore del Leone d’argento, Gran Premio della Giuria. Reduce dal successo del precedente Drive my car, Hamaguchi porta a Venezia un film più poetico ed evocativo, dalla fotografia spettacolare che omaggia la bellezza dei boschi di Mizubiki, vicino Tokyo. I personaggi si dividono in due gruppi: coloro che vivono in equilibrio con la natura e che vogliono difendere il loro territorio, e coloro che non ne capiscono il valore e l’importanza. Come da tradizione, a parlare, più che i dialoghi tra i personaggi, sono le immagini, i suoni (ma anche i silenzi) e la musica di Eiko Ishibashi, che ancora una volta collabora con il regista.

Tra gli altri paesi, anche la Francia ha fatto molto parlare di sé in questa 80ª Mostra del cinema, soprattutto con il capolavoro La Bête, di Bertrand Bonello, un film in concorso che ricorda molto quelli dell’enigmatico David Lynch: come in Mulholland Drive, infatti, lo spettatore viene invitato a interpretare a suo modo la storia narrata, che non segue una continuità temporale e che volutamente confonde chi assiste allo svolgersi degli eventi. La protagonista, interpretata da Léa Seydoux, accompagnata dal talentuoso George MacKay (portato al successo da Sam Mendes in 1917), è una donna che vive nel 2044, in un futuro privo di palazzoni iper-tecnologici e di robot, ed è la vittima della “bestia” del titolo, per il cui personaggio il regista e sceneggiatore ha preso ispirazione da Elliott Rodger, l’assassino del massacro di Isla Vista, avvenuto nel 2014. La Bête è un vero e proprio enigma da risolvere, un puzzle i cui pezzi si incastrano man mano che le scene si susseguono, ma non del tutto; lascia più dubbi che certezze, ed è sicuramente il film che farà più parlare di sé quest’anno.

Molto meno complesso è un altro film francese in concorso: Dogman del parigino Luc Besson, di cui tanto si sente parlare, ma che si dimostra essere un’”accozzaglia” di elementi presenti in altri film, pretenzioso e “tamarro”, senza il minimo senso o spirito creativo, nonostante l’impegno dell’attore protagonista Caleb Landry Jones. Besson imita Joker di Todd Phillips (oltre ad aver “rubato” e stravolto l’idea dal Dogman di Matteo Garrone), costruendo un personaggio esteticamente accattivante (chi non ama le storie del debole che trova la sua vendetta verso l’umanità?), ma privo di un’anima. Il titolo del film è Dogman proprio perché il protagonista ha un legame profondo con i cani, che usa come aiutanti per compiere i suoi crimini, ma questo rapporto non viene mai giustificato o approfondito: è un dato di fatto che lo spettatore deve subito assimilare senza fare domande. Seguono situazioni macchiettistiche, con personaggi al limite del ridicolo che fanno da contorno alla storia di Doug, in un susseguirsi di eventi banali che portano ad un finale frettoloso e quasi solo abbozzato che sembra voler forzare lo spettatore a commuoversi. Ahimè, i tempi di Giovanna d’Arco sono ormai lontani.

E parlando di film pretenziosi, è difficile credere che Lubo di Giorgio Diritti fosse in concorso. Tecnicamente è stato fatto un buon lavoro, le ambientazioni si prestano alla fotografia suggestiva e solenne del dramma storico, ma la scelta dell’attore protagonista non poteva essere più sbagliata: Franz Rogowski, nonostante le sue indiscutibili doti artistiche e il suo impegno nel recitare in diverse lingue, ha una fisicità, un’espressività corporale e un tono di voce che non si addicono per niente al personaggio dell’affascinante Lubo Moser, il che fa sì che lo spettatore non riesca a prestare attenzione a nient’altro. Lo accompagnano attori che possono solo definirsi mediocri, che fanno sfoggio di una recitazione forzata da fiction all’italiana. Un film che si potrebbe definire faticoso, anche per l’eccessiva durata.

A parte Lubo e le scelte discutibili di Diritti, il cinema italiano, non se la cava affatto male quest’anno. Degni di nota i due film Adagio di Stefano Sollima ed Enea di Pietro Castellitto, rispettivamente un gangster movie e una commedia/dramma, che però affrontano le solite tematiche da Suburra legate al cinema italiano degli ultimi anni: Roma, droga, pistole. Adagio sfoggia il “trio” Toni Servillo, Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino (che tanto ha fatto parlare di sé nei primi giorni della Mostra) che vediamo in vesti diverse dal solito, quasi irriconoscibili nell’interpretazione di eroi maledetti, vittime delle loro scelte e delle circostanze.

Castellitto junior si presenta a Venezia, invece, con un film fresco, originale e ambizioso, la cui oscurità è nascosta dai toni frizzanti e dai tempi comici, in uno stile che ricorda molto il primo Sorrentino, e raccontando i rapporti fra i membri di una famiglia borghese e l’eterna frustrazione dell’essere umano nella ricerca della felicità. Enea non è perfetto, soprattutto nella seconda parte, ma scorre bene e intrattiene, e si merita gli otto minuti di applausi che ha ricevuto.

Non sono mancati i biopic, come di consueto. Oltre a Ferrari di Michael Mann, Maestro di Bradley Cooper e Priscilla di Sofia Coppola. Il primo, che uscirà su Netflix puntando agli Oscar, è meglio strutturato rispetto al precedente lavoro dell’attore/regista A star is born. In Maestro Cooper si mette in gioco vestendo i panni del compositore Leonard Bernstein, e raccontando la storia del suo matrimonio non convenzionale con Felicia Cohn Montealegre, interpretata da Carey Mulligan, (colei che avrebbe dovuto vincere la coppa Volpi come migliore attrice, e che si spera venga almeno premiata agli Oscar), la reale protagonista del film, in una performance da vera pelle d’oca. La prima parte è in bianco e nero, ricorda e omaggia il musical, verso il quale era indirizzata la prima fase della carriera di Bernstein (compositore di West Side Story), mentre la seconda, a colori, si svolge in un’atmosfera più domestica, tra eventi mondani ed eleganti costumi anni Sessanta e Settanta, che fanno da sfondo ai litigi (che elegantemente non sfociano mai in accese scene madri). Il tema principale è il rapporto tra Bernstein e la moglie, mentre gli amori omosessuali del direttore d’orchestra passano in secondo piano (seppur questi ultimi fossero la causa principale del conflitto tra i due coniugi), così come la sua musica, a parte in un’intensa scena in cui dirige la sua Messa sul piedistallo con sensazionale trasporto.

Priscilla, invece, è il perfetto esempio di “compitino”. Il film è la controparte al femminile dell’Elvis di Baz Luhrmann, e ci vuole mostrare la storia del re del pop dal punto di vista della sua ex moglie Priscilla Beaulieu, ma lo fa in modo freddo e distaccato, quasi come se la Coppola fosse stata “assunta” (un po’ come l’orribile House of Gucci diretto FORSE da Ridley Scott) per esserne la regista. La prima parte racconta dell’incontro e dell’innamoramento tra Elvis e Priscilla, tra gli sguardi da bambolina (abbastanza inespressiva, ma premiata con la coppa Volpi come migliore attrice) di Cailee Spaeney e una buona interpretazione di Jacob Elordi, in scene lente e melense che si “lasciano guardare”, ma la seconda parte rallenta ancora di più, mostrando la solitaria Priscilla a Graceland in una serie di inquadrature monotone e ripetitive. La Coppola ci racconta ancora una volta delle sue donne in gabbia, soggiogate dai personaggi maschili, ma questa volta in modo più apatico, nonostante il magistrale utilizzo delle luci e delle scenografie eleganti e raffinate.

Un altro regista che sembra essere stato assoldato per il suo grande nome a dirigere un altro film in concorso è David Fincher, con il suo The Killer, un film di intrattenimento, semplice se pensiamo ai suoi capolavori come Seven e Zodiac, il classico film Netflix (infatti uscirà sulla piattaforma a novembre), tratto dalla miniserie a fumetti francese Le Tueur. Il protagonista è un sicario metodico e preciso passa settimane intere a spiare le sue vittime, finché svolge il compito che gli è stato assegnato, ma a causa di un errore la situazione sfugge al suo controllo. Michael Fassbender è sì perfetto per il ruolo dell’assassino glaciale e imperscrutabile, ma non si può dire che la sua voce narrante durante gran parte del film non risulti pesante nel suo essere monotonale. Nonostante il film diventi un convenzionale revenge movie a mo’ di Kill Bill, la regia di Fincher svolge (come il killer) il suo ruolo in maniera stavolta più scolastica e meno autoriale, e “porta a casa la pagnotta”. Degno di menzione è il cameo di Tilda Swinton, sempre elegante ed enigmatica, che ruba la scena a Fassbender.

Origin di Ava Duvernay, è un film in concorso a Venezia che indubbiamente non passerà inosservato agli Oscar. Intimo ma allo stesso tempo epico per la sua importanza nelle tematiche affrontate, racconta agli spettatori la storia di Isabel Wilkerson, scrittrice statunitense premio Nobel per il giornalismo per il saggio Caste: The Origins Of Our Discontents, ancora non tradotto in italiano, un’interessante ed importante indagine su quanto alla base del razzismo ci sia in realtà una organizzazione in caste della società. Il film segue l’impronta del film drammatico fino a diventare quasi completamente documentaristico, ed è questo uno dei suoi punti di forza: le tragiche vicissitudini familiari della scrittrice sono una delle ragioni che la spingeranno a persistere nella sua ricerca, e la porteranno fino in Germania e in India, per collegare la soppressione degli ebrei e dei dalit (in passato definiti “gli intoccabili”) con la schiavitù degli afroamericani. L’attrice protagonista, Aunjanue Ellis, e il resto del cast, tra i quali dobbiamo citare i bravissimi Jon Bernthal e Niecy Nash-Betts, riescono ad emozionare e commuovere per la loro naturalità e devozione ai ruoli che interpretano, e contribuiscono a realizzare un film che farà sicuramente la storia, così come il best seller che lo ha ispirato.

Come non concludere con l’imperdibile Io Capitano del maestro (dopo tanti capolavori non si può che considerarlo tale) Matteo Garrone, premiato con il Leone d’argento per la migliore regia Il dramma di due ragazzi in fuga dal Senegal per inseguire il loro sogno, il loro dolore, le speranze, la nostalgia degli affetti familiari vengono raccontati con estrema cura da Garrone, che grazie all’aiuto degli altri sceneggiatori Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri (anche aiuto regista) realizza ancora una volta un film speciale, emozionante anche per chi non ha la lacrima facile, diverso dai suoi lavori precedenti ma simile ad essi in alcuni aspetti. Infatti il viaggio dei protagonisti, le persone che incontrano mentre passano dal Senegal al deserto del Sahara e poi al Mar Mediterraneo fino ad arrivare in Sicilia sono elementi che ricordano molto il percorso di crescita di molti dei suoi personaggi, primo tra tutti il precedente Pinocchio. Perché Io Capitano può essere considerata una favola contemporanea, la storia del tenero e innocente Seydou, interpretato da un eccezionale Seydou Sarr, giustamente premiato con il Premio Marcello Mastroianni come miglior attore emergente, che diventa un “bambino vero”, assumendosi la responsabilità di molte vite nella traversata che porterà lui e suo cugino Moussa (una sorta di Lucignolo, che si pente delle sue scelte azzardate) in Italia. Un film sensibile e che tiene incollati allo schermo, che serve a prendere coscienza di una realtà che egoisticamente tendiamo ad ignorare e dimenticare.

Questi sono solo dodici dei film in concorso, alcuni memorabili, altri decisamente dimenticabili, e mentre attendiamo la visione degli undici film rimanenti godiamoci anche i Fuori Concorso e quelli delle categorie Orizzonti ed Orizzonti Extra, nella seconda parte della nostra recensione dell’80ª Mostra del Cinema di Venezia.

Michele Carmone

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