Conversando con Giulia Loperfido

Discutere con un’interprete di un programma è sempre un esercizio stimolante sia per chi fa le domande, che ha la possibilità di confrontarsi con un tipo di creatività spesso trascurata, quella che porta alla scelta di una precisa di successione di brani, sia per chi legge, per farsi un’idea del musicista che avrà di fronte in sala o che magari andrà ad ascoltare in un futuro prossimo. Protagonista di questa intervista è la giovane pianista romana Giulia Loperfido, in procinto di debuttare al Festival Suoni Oltre Confine con un recital solistico incentrato su una musica che viene dal nord. Shostakovic, Skrjabin e Kaija Saariaho i protagonisti del concerto in programma il 10 marzo nella città laziale. I brani previsti sono la terza sonata di Skrjabin, il Preludio di Saariaho, in prima nazionale per l’occasione, e la seconda sonata del compositore di Leningrado.

Se Shostakovic e Skrjabin sono due personalità di pubblico dominio per gli ascoltatori più esperti, Kaija Saariaho merita qualche parola in più perché ancora non ha superato quella coltre di difficoltà che attanaglia la musica “contemporanea” in senso lato.

Saariaho è una musicista che ha segnato un’epoca. Poche altre personalità della sua generazione hanno saputo rispondere agli stimoli di tutte le epoche e correnti artistiche che hanno solcato la seconda metà del ventesimo secolo in maniera tanto reattiva, adattandosi dove necessario senza però stravolgere un’identità chiara di fondo basata su due assiomi fondamentali: la ricerca della luce tanto nelle tessitur elettroniche quanto nelle partiture orchestrali, e al tempo stesso un chiaro fondamento materico del suono. Abbiamo approfittato di questa apparente dicotomia per approfondire il programma con Giulia Loperfido, chiarirne i contorni e spiegare questi accostamenti.

  • Kaija Saariaho è una musicista che ha esplorato nella carriera compositiva diverse possibilità strumentali, ma è stata solitamente associata, con la sua poetica fatta di luce, alla musica elettronica e agli archi. Come ci si rapporta a una musica del genere dal punto di vista pianistico?

Si può affermare senza timore che nell’opera di Kaija Saariaho la produzione pianistica non sia prevalente. Questa consapevolezza rende l’approccio a un brano del genere ancora più affascinante: è interessante pensare che sia un territorio “inusuale” per l’autrice stessa, ed è interessante ricercare i modi in cui essa trasporta la sua estetica così intrinsecamente fondata su masse sonore cangianti e in lenta evoluzione su uno strumento per certi versi tanto “concreto” come il pianoforte.

Non a caso ritorna costantemente sulla partitura l’aggettivo “flessibile” (vale la pena notare che il termine è inserito anche nell’indicazione agogica della “Ballade” del 2005, che insieme al Prelude costituisce la sola produzione per pianoforte solo dell’autrice).

A mio parere il “flessibile” di Kaija Saariaho non si riferisce necessariamente all’aspetto ritmico e agogico, ma quasi più a una flessibilità sonora, come un invito a ricercare un suono plastico capace di modificarsi in modo mai netto, come invece è naturale su uno strumento in cui ogni tasto ha la sua altezza e il legato stesso è di fatto un’illusione, ma sempre, appunto, “flessibile”. È significativo anche il “sempre molto pedale”, altra indicazione che aiuta a comprendere l’effetto quasi di nebbia voluto dall’autrice.

È necessario un approccio per certi versi antipianistico: di fronte a una massa continua di cromatismi che si inerpicano e precipitano attraverso tutti i registri della tastiera, quello che deve prevalere è il “Sempre calmo, dolce, leggeramente” dell’agogica. E il “Più passionato” è apposto proprio in uno dei pochissimi punti in cui l’alone è sospeso, la scrittura diventa trasparente e rimangono isolati gli altri due elementi costitutivi del brano, ampie linee ascendenti e un lento ostinato di terzine, che come rintocchi ossessivi permangono quasi ininterrottamente per tutto il brano.

Il lavoro parte quindi da un ascolto quasi a posteriori del risultato sonoro più che dalla materia tecnica che si legge sulla parte, e la ricerca prevalente è quella di mantenere separati diversi piani sonori che come in multiprospettiva si sovrappongono senza mai mescolarsi.

  • Una delle cose che colpisce di più del Preludio che andrai ad affrontare è quell’indicazione in un italiano “personale” della compositrice, che inserisce nell’agogica un leggeramente. Quanto può essere leggera l’interpretazione di un brano del genere, soffuso ma certamente ricco e denso al suo interno?

Trovo in questo brano un potere ipnotico capace di condurre chi ascolta (ma anche chi esegue) a una sorta di trance. Trascorre in una sospensione che non sfocia mai in una sensazione definita, e questa indefinitezza risulta quasi angosciante, come l’attesa di qualcosa che si avvicina per poi riallontanarsi senza mai svelare la sua natura (giustamente, è un Preludio. Ma preludio a cosa?)

Da un punto di vista dinamico abbondano i pianissimissimi (ppp); il materiale però è tutt’altro che rarefatto, ed è innegabile la presenza di un’energia densa e continuamente “tenuta a bada”, che solo occasionalmente sfocia nei forti rari e sempre circoscritti.

L’indicazione agogica (Sempre calmo, dolce, leggeramente) all’inizio del brano potrebbe quasi risultare un ossimoro, ma è una chiave di lettura indispensabile per comprendere le intenzioni dell’autrice.

Quanto tecnicamente possa essere leggera l’interpretazione del brano dipende ovviamente dai molti fattori materiali contingenti all’esecuzione: acustica, strumento, e ovviamente l’esecutore stesso.

Quanto possa esserlo psicologicamente è tutt’altro discorso, e richiede non poco autocontrollo: è un brano da eseguire trattenendo il respiro. Un buon punto di partenza può essere cercare di entrare in una dimensione tendenzialmente ascetica e dimenticarsi di tutte le grandi esplosioni di passione a cui ci ha abituati il romanticismo.

  • Inseriamo il Prleudio in un contesto più ampio: il programma viene arricchito con un brano di Skrjabin, la Terza sonata, quasi giovanile dal punto di vista cronologico. C’è una relazione tra questi due brani, per essere accostati in un modo così netto?

La relazione fra i due brani si potrebbe più facilmente ricercare nel contrasto più che nella somiglianza: almeno ad un ascolto estemporaneo, si tratta di due universi sonori ed emotivi quanto mai distanti.

Andando a scavare al di là dei brani anche nel percorso dei due compositori in realtà non è impossibile trovare punti di contatto. In particolare è interessante indagare il rapporto con la sinestesia sviluppato da entrambi, poi condotto da ciascuno in direzioni diverse.

La Terza Sonata di Scriabin rientra in quella prima fase compositiva che si può tranquillamente definire post romantica.

Con la sua drammaticità quasi imponente, per molti tratti mi ricorda la Terza sonata di Chopin, autore di cui peraltro notoriamente risente l’influenza nella sua produzione pianistica soprattutto del primo periodo.

Dal punto di vista della scrittura, trovo una certa affinità con il Prelude della Saariaho in particolare nel terzo movimento: anche in questo si può parlare di piani sonori sviluppati su diversi livelli, e anche qui è presente una “nebbia”, o meglio un flusso di semicrome che avvolgono e conducono il tema fino a sfociare, dopo una breve sospensione, nel tempestoso quarto movimento.

Le energie dispiegate nella sonata sono molto più personali ed emotivamente definite di quelle che si trovano nel Preludio della Saariaho: talmente definite da aver essere indicate dall’autore nel testo scritto da lui stesso a descrizione di ciascun movimento.

  • E conclude poi il concerto un’altra sonata di autore russo, questa volta Shostakovic. In quasi mezz’ora di musica, scritta per giunta in un contesto di privazione per Shostakovic evacuato da una Leningrado sotto assedio, c’è un universo: quali sono i tratti più significativi del brano?

La seconda sonata di Shostakovich, con la sua divisione in tre movimenti e l’utilizzo di forme quali la forma sonata nel primo e il tema con variazioni nel terzo, ha un’impostazione relativamente classica.

È una sonata che per quanto ampia non ricerca mai un virtuosismo fine a sé stesso, e all’interprete richiede un grandissimo lavoro emotivo e psicologico.

La scrittura è essenziale, a volte al punto da lasciare una sola linea sospesa in un vuoto assoluto (ad esempio il tema del terzo movimento).

Shostakovic è un autore che non si può affrontare se non se ne conosce la vita e il contesto storico, perché è in questi elementi che risiede la chiave di lettura della sua musica.

Solo con la consapevolezza dell’oppressione subita dal governo sovietico, le censure, l’ansia e il senso di paranoia che lo accompagnerà per tutta la vita acquistano significato gli elementi ricorrenti nelle sue opere, e anche tutti gli elementi apparentemente criptici di questa sonata.

Con un primo movimento che alterna un’inquieta malinconia a un’energia forzata e grottesca, un secondo tanto sospeso da avere i tratti di un’allucinazione, e un terzo che con nove variazioni è un piccolo caleidoscopio di stati d’animo diversi ma sempre inquieti e inquietanti, Shostakovich emotivamente traccia un arco che si apre e rientra in sé stesso. E dopo quasi mezz’ora di musica, la chiusura di questa sonata non lascia spazio ad altro che ad un senso definitivo di cupo dolore.

Filippo Simonelli

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