Il disco: Your Mother Should Know. Brad Plays the Beatles

Si parte dalle strisce pedonali più famose dell’immaginario pop, quelle di Abbey Road, London NW8. La copertina dell’ultimo disco di Brad Mehldau, Your Mother Should Know (Nonesuch Records), cita quella celeberrima del penultimo album dei Fab Four, con i quattro in fila che attraversano la strada. Loro però non ci sono. E c’è invece una moltiplicazione delle strisce bianche su asfalto nero: proiezioni neanche tanto astratte dell’idea di tastiera. Molteplice e complessa.

Il pianoforte al centro, dunque. Sembra banale dirlo, ma per qualche motivo quando si parla del geniale pianista della Florida, che ha doppiato da poco il capo dei cinquant’anni, le questioni di genere e di stile restano sempre prevalenti, intricate e ingombranti. E si tende invece a trascurare quella che costituisce una imprescindibile evidenza: al cuore del mondo creativo di Mehldau c’è prima di tutto il suo strumento, creatore o tramite di universi sonori che vanno oltre le questioni formali e attraversano il tempo per puntare a quello che appare il vero obiettivo di questo musicista: riplasmare l’espressione a partire dalla consapevolezza di ciò che è stato, si tratti del Clavicembalo ben temperato di Bach o – appunto – una scelta di canzoni dei Beatles.

Poi, se si tratta di aprire il “file” della band inglese che ha rivoluzionato l’idea stessa del pop, la scelta di Mehldau appare di per sé una sorta di affermazione estetica controcorrente. Non troverete infatti praticamente nessuno dei titoli che hanno fatto epoca e continuano a farla a sessant’anni di distanza. Cronologicamente, il percorso è ampio. Il pezzo più antico è quello dall’album Please Please Me, anno 1963 (I Saw Her Standing There), i più recenti i due che fanno parte di Abbey Road, pubblicato nel 1969. In questo caso, il pianista americano si tiene peraltro accuratamente lontano dalla canzone-simbolo di quell’album, Here comes the Sun, per puntare sulla sarcastica Maxwell’s Silver Hammer, che racconta di un serial killer che uccide le sue vittime con un martello d’argento. E per scorporare dal cosiddetto “Medley” che chiude l’album la ninnananna di origine secentesca intitolata Golden Slumbers (Sogni d’oro). Ma tutto il percorso si svolge lungo sentieri beatlesiani non troppo noti, per quanto magari altamente considerati dalla critica. È il caso del pezzo di apertura, I’m the Walrus (dall’album Magical Mystery Tour, 1967), giudicato uno dei capolavori di John Lennon, qui ispirato al nonsense dalla storia del tricheco e del carpentiere, ricreata da Lewis Carroll e pubblicata come poemetto in Attraverso lo specchio (1871). O ancora è il caso della dolente, se non lugubre canzone intitolata Baby’s In Black, cupa riflessione sul distacco e sulla morte contenuta nell’album Beatles for sale, del 1964. https://youtu.be/YPuZ671t5t4

In generale, appare chiaro che nel costruire il proprio personalissimo itinerario beatlesiano, Brad Mehldau è stato attratto dalla relazioni culturali composite sottese alle canzoni prescelte, fra riferimenti ad antiche tradizioni, cupe cronache d’attualità, con emersione  e fuga in una logica psichedelica dichiarata fin dal principio, e poi sottolineata con l’unico elemento non beatlesiano dell’album, la celeberrima Life on Mars? di David Bowie, che sembra quasi un segnavia per avventurarsi nell’era post-Beatles, collocata com’è sul principio degli Anni Settanta, quando già i Fab Four si erano detti addio.

Il clima e la forza comunicativa delle canzoni originali, sempre illuminate da una limpida vena melodica, sono il punto di partenza di un gesto creativo personale oltre che originale nella creazione del suono, nel lavoro sui temi, nella riflessione sui campi armonici effettuata da Mehldau. Il suo è un lavoro che non appare mai “eversivo” ma svela un pensiero musicale fatto di sottili e colte divagazioni, e specialmente di sapienti escursioni nei valori dinamici, punto di partenza della sua sfida espressiva. In essi consiste (con il correlato della raffinata duttilità timbrica) il vero plusvalore di una ricognizione che non si tira certo indietro al cospetto delle varietà ritmiche beatlesiane, ma le riconduce a una salda struttura fortemente e tradizionalmente espressiva, dalla quale non appare interessato più di tanto a uscire. https://youtu.be/lgJPmMOWPU4

È singolare osservare come il rapporto con le durate delle canzoni originali abbia andamenti diversi, corrispondenti evidentemente non soltanto allo sviluppo del pensiero improvvisativo (la registrazione di questo disco è avvenuta dal vivo alla Philharmonie di Parigi nel settembre 2020) ma specialmente alle esigenze creative di un pianista-compositore che non dimentica mai questa sua prerogativa. Se la maggior parte dei pezzi è vicina alle durate “originali”, alcuni ne sono lontani in maniera rivelatoria: il citato Baby’s in Black passa dai due minuti circa dei Beatles a una vera e propria escursione improvvisatoria di oltre sette minuti, che sembra una sorta di manifesto musicale secondo quanto dichiarato anche di recente in un’intervista pubblicata dalla rivista Musica Jazz: «Per me il jazz ha molto a che fare con la percezione dello swing e come declinazione del blues». Un segnale (in questo brano di chiara evidenza) indirizzato agli adepti duri e puri della musica afroamericana, dalla quale in realtà questo disco capitale si sfila continuamente, affermando un linguaggio dalle suggestioni multiple, come ben dimostrano del resto le altre elaborazioni “fuori misura”, quelle di Maxwell’s Silver Hammer e Golden Slumbers, che da sole durano quasi un terzo dell’intero album. Si tratta di composizioni nella quali la tradizione del solo-piano jazzistico è innervata dalla consapevolezza di una tradizione che in questo caso si spinge fino al pianismo tardo-Ottocento e primo-Novecento fra Brahms e Skrjabin, Satie e Rachmaninov. Lontano da ogni sospetto di maniera – qui sta tanta parte della sua straordinarietà – Brad Mehldau fa diventare il suo linguaggio pianistico la chiave di volta che dischiude paesaggi espressivi nuovi. Alla fine, bastano le dissonanze che ridisegnano le evasioni armoniche nell’introduzione di I’m the Walrus, o le poetiche alternanze di “forte” e “piano” nel ritornello in Life on Mars?, fonte di coloristiche seduzioni, a fare capire che oltre il genio di John Lennon e David Bowie si può scoprire altra vita musicale.

Brad Mehldau ha iniziato il 21 febbraio un ampio tour europeo di solo pianoforte (Spagna, Belgio, Svizzera, Olanda, Francia, Danimarca, Austria, Norvegia). L’unica tappa italiana è in programma il 18 marzo al teatro Bellini di Napoli. A Umbria Jazz l’11 luglio sarà invece di scena con il suo acclamatissimo Trio. Fra marzo e maggio, da Bruxelles ad Amsterdam, l’interprete americano riproporrà anche il Piano Concerto scritto su commissione del Barbican Centre e di molte altre importanti istituzioni musicali di qua e di là dell’Oceano, portato al debutto a Londra all’inizio del 2019. Un altro tassello rivelatorio nel mosaico di uno dei grandi musicisti del nostro tempo.

Cesare Galla

Articolo pubblicato su Tag43.it ­– che ringraziamo – il 26/2/2023 (https://www.tag43.it/brad-mehldau-your-mother-should-know-beatles-jazz-disco/)

Your Mother Should Know. Brad Plays the Beatles
Brad Mehldau
Nonesuch 2023
75597907407

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