Josef Mysliveček, Il Boemo: The Man And His Music

Daniel Freeman è un Americano del Minnesota che ha lungamente vissuto e studiato a Praga fin da prima della Rivoluzione di Velluto (1989). Dalla sua tesi di dottorato sul teatro praghese del conte Franz Anton von Sporck, importante approdo di diaspore operistiche veneziane e vivaldiane, fu ricavato nel 1992 un volume; un altro sui rapporti privilegiati di Mozart con la capitale boema è uscito nel 2021. Il suo massimo credito nel campo della ricerca musicologica resta comunque la monografia su Josef Mysliveček (1737–1781), esponente di primo piano del Classicismo internazionale, fecondissimo compositore in tutti i generi, ma soprattutto recordman dell’opera seria di stampo metastasiano con 26 titoli rappresentati fra il 1766 e il 1780. Comparsa nel 2009, ritorna ora con titolo immutato in un sostanzioso rifacimento che dalle 425 pagine originali lievita a 701.

“Il Boemo”, come lo chiamavano in Italia, non era considerato ai suoi tempi uno stinco di santo; e meno che mai “divino” (titolo d’encomio inventato da un romanziere ottocentesco). Nulla di agiografico nella documentata narrazione di Freeman, che — potando la selva di miti, illazioni e reticenze cresciuta per due secoli attorno a Mysliveček — ne tratteggia l’avventurosa e non sempre limpida parabola umana. Dagli anni della prima formazione a Praga, alla rapida inculturazione italiana, ai brillanti successi artistici e mondani, fino alla prematura morte a Roma in condizioni di miseria e solitudine causate da uno stile di vita imprudente; la “unvarnished truth” ricostruita da Freeman è efficacemente contestualizzata nella cornice di un sistema produttivo dell’opera seria nato in Italia ma generalizzato a scala continentale fin dal primo Settecento. Sistema tanto inclusivo da permettere ad outsiders venuti d’oltralpe come Händel, Hasse, Gluck, Gassmann, Johann Christian Bach o lo stesso Mysliveček di validamente competere con gli “indigeni” sul loro stesso terreno.

Delle quattro sezioni in cui si divide il volume, quella biografica è senza dubbio la più appetibile per il musicofilo di base; la seconda, più tecnica, è dedicata alla discussione dei caratteri stilistici in chiave sia diacronica, sia comparativa. Da quando Wilhelm von Lenz varò nel 1855 la teoria dei tre stili applicata alla produzione di Beethoven, la medesima griglia ha trovato impiego talora fin troppo meccanico per una quantità di compositori di ogni epoca. Tenendo debito conto di sfumature e transizioni, Freeman ha buon gioco nel dimostrare come nel caso di Mysliveček le tappe evolutive coincidano in modo probabilmente non casuale con i suoi ritorni al teatro napoletano di San Carlo, fucina di rivoluzioni del gusto e polo di attrazione per virtuosi stellari: dalla prevalenza dell’aria col da capo “al fine” o “al segno”, passando per strutture bipartite assimilabili alla forma-sonata, fino alla soluzione avveniristica della sequenza adagio-allegro-rondò.

Nella terza sezione si affronta un tema fra i più controversi: la stretta relazione personale fra il Boemo e il Salisburghese, di 19 anni più giovane. È ben comprensibile che all’altezza del decennio 1770-’80 (ossia dal Mitridate all’Idomeneo) l’influenza del già affermato Mysliveček sull’esordiente Wolfgang si manifestasse in forma dapprima assai pronunciata e poi via via attenuata. Tuttavia nessuna indulgenza si concede da Freeman a deliranti teoremi negazionisiti che vorrebbero vedere in Mysliveček una sorta di ghost writer più o meno consenziente in virtù di rapporti amicali e/o di traffico d’influenze fra lui e i due Mozart padre e figlio. Vero è che l’amicizia si ruppe nel 1776-’78 per un malaugurato incidente che fornisce ad un capitolo del libro l’intrigante titolo (in italiano nel testo) “Il Boemo Traditore”. Un caso di studio sul quale si è menato gran rumore da parte dei pretesi decostruttori di Mozart riguarda anche la canzonetta “Ridente la calma” KV 152.

Già da circa un secolo era nota la circostanza che si trattasse di un arrangiamento, per soprano e raffinato accompagnamento pianistico, di un’aria di Mysliveček: “Il caro mio bene” dall’Armida scaligera del 1779. Riesaminando in dettaglio le tormentate vicende di quella produzione, Freeman sottolinea che si trattò in pratica di un’opera-pasticcio dove il brano di Mysliveček era a sua volta un rifacimento di “Se piangi, se pene”, aria di Francesco Bianchi incorporata dal celebre soprano evirato Luigi Marchesi nel proprio baule personale; altrettanto fece nel title role la primadonna Caterina Gabrielli con tre arie di Giuseppe Sarti. Piuttosto che trombettare poliziesche denunce di “furto”, “plagio” e simili, i signori sbianchettatori della Storia meglio farebbero a rinfoderare le manette e a documentarsi sulle reali condizioni produttive dell’industria operistica settecentesca, nonché sul limitato valore in quel tempo delle moderne concezioni di autorialità e originalità.

In parziale accordo con le teorizzazioni forse troppo formalistiche e metastoriche di Robert Gjerdingen circa lo stile galante, Freeman afferma invece a pp. 299-300: “È facile sopravvalutare l’importanza dei vari tipi di somiglianze fra lo stile di Mozart e taluni passi nella produzione di molti compositori del tardo Settecento. […] I compositori di quell’epoca aderivano a una “pratica comune” di tecniche condivise e gesti melodici di repertorio, la quale rende difficile valutare il vero significato di passaggi che qua e là suonano simili a brani di Mozart o di altri compositori. La critica stilistica non è abbastanza precisa per misurare quantitativamente la complessiva rassomiglianza dell’opera di un compositore con quella di un altro, e gli storici sono fortunati quando sono in grado di provare che la somiglianza nello stile si può correlare a contatti personali o alla disponibilità di specifici modelli”.

E nemmeno egli soffre di quella mimesi empatica (autentica “sindrome di Stoccolma”) che non di rado pare spingere il biografo a magnificare oltremisura i meriti di quel biografato con cui ha convissuto per anni di prigionia: “I risultati del suo lavoro sono di qualità paragonabile o superiore a qualsiasi musica composta da Johann Christian Bach o da Boccherini, ma rispetto alla produzione matura di Haydn e di Mozart la scrittura di Mysliveček soffre solitamente di fiato breve, limitazioni nella gamma degli sviluppi e minore individualità del materiale tematico” (p.108).

In questa sua ultima fatica Freeman ci offre un esempio di rigore metodologico non disgiunto da talento narrativo e capacità di porre in relazione uomini e culture, istituzioni, storia socio-economica e sobri spunti di introspezione psicologica scevri da peregrine speculazioni al modo di un Maynard Solomon o di un Florian Langegger. Dopo la già avvenuta traduzione in ceco, se ne auspica una in lingua italiana a beneficio del pubblico generalista; gli addetti ai lavori non mancheranno di apprezzare l’utilità di un catalogo sistematico dell’opera omnia completo di fonti, concordanze, riferimenti bibliografici e discografici, né una parata di 93 esempi musicali in cui trovano supporto argomentativo tanto le analisi formali quanto i sempre perigliosi giudizi di valore estetico.

Carlo Vitali

Daniel E. Freeman
Josef Mysliveček, “Il Boemo”: The Man And His Music
Minneapolis, Calumet Editions, 2022
XVIII+683 pp., ill., es. musicali

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