Novara: una Traviata onirica in un Piemonte degli anni sessanta

La Traviata, pur nella sua sconcertante attualità, può diventare un viaggio della memoria.

Nel caso della Traviata messa in scena al Teatro Coccia di Novara il 3 e il 5 maggio dalla premiata ditta Matteo Beltrami & Renato Bonajuto, per due ordine di buoni motivi.

Il primo è biografico, sia consentita una breve digressione al modesto scriba, una Traviata (in forma semiscenica) è stato il battesimo con la lirica per un tardo adolescente di Novara con qualche problema di acne.

Il contesto era quello di paese, Trecate nel caso di specie, ma le voci avevano allure decisamente internazionale, era la Corale San Gregorio Magno. Era sul fine degli anni novanta e il nonno, classe 1915, ancora aveva il suo posto tra i tenori del pluripremiato coro che, guarda il caso della vita, era sul palco del Coccia per quest’ultima Traviata e qui veniamo al secondo passaggio sul tema della memoria.

La regia di Bonajuto non è scevra da volute contraddizioni spazio temporali, alla fine resta il dubbio che tutto sia stato solo un sogno ma questo non ne reduce la carica di attualità, anzi la rafforza. Per paradosso, o per scherzo benigno del destino, la dimensione onirica del racconto è stata poi ulteriormente amplificata (anzi valorizzata) da alcuni forfait e piccoli indicenti di percorso del pur eccellente cast originario (su tutti un Rivas che resta un Alfredo di assoluto riferimento). In una sorta di rimescolamento di carte i protagonisti del racconto di Dumas figlio sono risultati più giovani dei loro padri come, del resto accade di frequente nei sogni. Anche la collocazione, dalla Parigi cosmopolita di Luigi Filippo alla Novara degli anni ’60 è funzionale al ribaltamento di ogni prospettiva. Violetta, professionista (Verdi avrebbe detto puttana) al termine di una discreta carriera in città diventa animatrice di cene eleganti nella provincia un po’ annoiata,  benevola osserva i cambiamenti del costume che si consumano sotto i suoi occhi (per ora solo nei suoi saloni) con giovani gaudenti che si scambiano effusioni omoerotiche. Tra parentesi, sempre elegante di voce e di passo, il bel Blagoj Nacoski.

A questa Violetta matura e in fondo pacificata (anche se qualche accenno di acciacco non manca, di questo però dobbiamo ringraziare Piave) incontra un Alfredo altrettanto maturo ma forse non pacificato(vedi certi scatti adolescenziali), ed è finalmente per lei l’occasione di scoprire che l’amore non si misura solo in luigi d’oro.

La direzione di Beltrami, già sentita ed apprezzata in Rigoletto, unisce scapigliatura a precisione. Una specie di ossimoro vivente, anche se poi la folta chioma raccolta sulla nuca non è più tanto una novità sulla pedana. Nel caso di Beltrami però c’è anche altro, molto altro.

Il cast vocale è bene assortito e genera più di un applauso a scena aperta. Madame Kolonits nei panni di Violetta ci ricorda che certe nazioni danubiane non esportano solo sovranismo. Solida e coraggiosa con le note e credibile nei movimenti che non vogliono scimmiottare un finto giovanilismo. Danilo Formaggia, nei panni di Alfredo, chiamato in extremis a salvare lo spettacolo dimostra indefesso professionismo e ottima tecnica. Alla fine la chimica tra i due protagonisti è risultata più che credibile. Credibile anche il più giovane Luongo nei panni di Germont padre, non tanto per gli effetti del trucco sulla sua folta chioma, quanto per l’uso attento del registro vocale, voce ben tornita e proiettata sempre in maniera impeccabile, ne guadagnano i duetti con i protagonisti del secondo atto, entrambi decisamente pregevoli.

Il resto del cast ci consegna una carrellata di interpreti perfettamente calati nell’idea di regia, da una Flora (Carlotta Vichi), che si potrebbe dire la perfetta padrona di casa, al gruppo di ragazzi ben pettinati che incarnano la finta trasgressione che alberga nella pigra vita provinciale (Gentili, Mannino e Cavalluzzi). Meno pettinato, invece, il Gastone di Blagoj Nacoski che, oltre alle effusioni omoerotiche del primo atto, ci consegna un’altra prima volta (almeno per il Teatro Coccia), con il debutto sul palco della sua meravigliosa figlia pelosa. Un golden retriever di nome Hera.

Del Coro San Gregorio, per evitare il rischio di cadere nella trappola della nostalgia, meglio oltre non indugiare.

Marco Ubezio
(5 maggio 2019)

La locandina

Direttore Matteo Beltrami
Regia Renato Bonajuto
Scene Sergio Seghettini
Costumi Matteo Zambito
Personaggi e interpreti:
Violetta Valéry Klára Kolonits
Flora Bervoix Carlotta Vichi
Annina Marta Calcaterra
Alfredo Germont Danilo Formaggia
Giorgio Germont Alessandro Luongo
Gastone / Giuseppe Blagoj Nacoski
Barone Douphol / Commissionario Roberto Gentili
Marchese d’Obigny Claudio Mannino
Dottor Grenvil Rocco Cavalluzzi
Orchestra del Teatro Coccia
Orchestra del Conservatorio Cantelli di Novara
Coro San Gregorio Magno 
Maestro del coro Mauro Rolfi

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