Roma: tornano al Costanzi i Pagliacci nella storica regia di Zeffirelli

Torna al Teatro Costanzi “I Pagliacci” l’opera in un prologo e due atti scritta e musicata da Ruggero Leoncavallo;  torna da sola nella storica regia del centenario firmata nel 1992 sempre per l’Opera di Roma  da Franco Zeffirelli,  con Cecilia Gasdia. Leo Nucci e Giuseppe Giacomini)  e il pubblico  romano riscopre la modernità di un anticipatore di genio. Eh sì, perché Zeffirelli, che ricorse per la prima volta all’ambientazione contemporanea per una sua regia d’opera scegliendo i costumi dell’oggi, e puntando sull’attualizzazione della vicenda, convinto com’era che era proprio ciò che Leoncavallo voleva per la sua “dolorosissima avventura di sangue e morte”, forse non sapeva di anticipare quello che trent’anni dopo sarebbe diventato una moda, anzi quasi una norma per la messinscena del teatro musicale.

Ecco allora che la regia di Zeffirelli, ripresa con diligenza da Stefano Trespidi, che ha nel campo un’assoluta competenza,  riproposta in chiave ultra contemporanea nei costumi sempre splendidi di Raimonda Gaetani, storica collaboratrice del regista fiorentino, convince alla grande, nonostante alcune modifiche come l’assenza del cavalcavia originario coi famosi piloni della tangenziale di una città della periferia meridionale non meglio identificata. Sulla scena animata dalla stessa variopinta umanità, trent’anni dopo  figura solo una stradella a doppia rampa che collega l’alto e il basso, mentre sullo sfondo, suddiviso in tre ordini, s’anima il quartiere popolare di un qualsiasi Castellamare di Stabia, con l’officina e la locanda al piano terra, e gli abitanti appollaiati sui balconi dei loro miseri alloggi inframmezzati da impalcature e tramezzi in legno che sembrano annunciare le scene di Paolo Fantin per il  Barbiere di Michieletto. A sinistra della scena su un lato le  povere baracche di alluminio lasciano spazio  al teatrino ambulante che mette in scena al secondo atto lo psicodramma nel dramma del capocomico Canio, vestito da Pulcinella,  della moglie primattrice Nedda,  in abito rosa e nero rosa con tulle e paillettes da sciantosa, di Beppe e dell’orrendo Tonio, il gobbo attore invaghito di Nedda che da lei deriso che trama vendetta, e infine da Silvio, il contadino di Montalto Uffugo, il piccolo comune calabrese sulle montagne cosentine dove secondo Leoncavallo si compì il vero dramma da cui trasse ispirazione il suo melodramma,  e che  fedele alla regia di Zeffirelli diventa   un piccolo borghese in jeans e giacca bianca,  per assolvere  il ruolo suo ferale di occasionale amante di Nedda. La scena della seduzione avviene su un giaciglio improvvisato in mezzo alla strada come la troupe itinerante, ma è subito interrotta dall’arrivo di Canio, che dà in escandescenza e prende a rincorrere, invano, il fedifrago.

Eppure nulla di sorprendente in tanta attualizzazione. Valerio Cappelli, che di Zeffirelli fu il negro, ricorda come il regista nel 1992, al suo quarto allestimento dell’opera di Leoncavallo, dopo quello al Covent Garden, al Met, e alla Scala per il quale aveva scelto un’ambientazione in epoca fascista, per il Costanzi si fece venire l’idea di una periferia urbana del profondo sud:  «Pagliacci è un’opera che cammina nel tempo, è sempre attuale, e l’attualità cambia. Il verismo si può far respirare con i parametri del quotidiano. Mi sono chiesto quale fosse l’equivalente del mondo contadino in cui si muove quest’opera, e la risposta è stata immediata», confidò  il maestro a Cappelli.

Allora come oggi, sul podio c’è l’israeliano Daniel Oren, che torna dopo tredici anni  al Costanzi  per cimentarsi con quello che questo capolavoro del verismo e guida l’orchestra romana in un’esecuzione perfetta, scandendo con precisione millimetrica tutti gli attacchi, cantando ogni verso con gli attori, e accompagnandoli senza mai sovrastarne le voci splendide, e addirittura incoraggiandoli quando sembrano esitare, o trattenere lo sforzo per tesaurizzare le energie. Tutto inizia col prologo stupefacente di Tonio, interpretato dal possente timbro brunito di Amartuvshin Enkhbat, baritono mongolo con alle spalle un solido repertorio verdiano (memorabile il suo debutto nei panni di Miller nella Luisa Miller diretta da Michele Mariotti l’anno scorso all’Opera di Roma) il quale,  vestito e truccato da Pagliaccio,  a sipario calato annuncia al pubblico che la storia che stiamo per vedere è vera, come veri sono gli attori e i cantanti, con le loro passioni e le loro sofferenze comuni a tutti gli esseri umani. Dopodiché entra in scena Canio e  la voce del tenore Briand Jadge (grande Turiddu alla Nationale Opera di Amsterdam)  sembra così tenue e così parca da risultare labile, sottotono, salvo poi rivelare tutta la sua estensione a metà del primo atto e per tutto il secondo. In compenso, ottima prestazione e senza discontinuità quella del soprano georgiano Nino Machaidze nel ruolo di Nedda, col suo timbro fluido, cristallino, e il suo vibrato mellifluo quanto basta, che adotta per depistare i sospetti del marito. Convince del tutto il Silvio giovanilmente appassionato di Vittorio Prato. In aggiunta alla maestria tecnica segnaliamo fra le masse imponenti e variopinti del coro, con molti bambini, dei popolani e contadini in festa, la   non comune sua presenza scenica, assicurata con costanza, nonostante il fastidio provocato dal pubblico romano che, con sfrenato entusiasmo della prima applaudiva spesso fuori tempo.

Marina Valensise
(12 marzo 2023)

La locandina

Direttore Daniel Oren
Regia e scene Franco Zeffirelli
regia ripresa da Stefano Trespidi
Costumi Raimonda Gaetani
Luci Vinicio Cheli
Personaggi e interpreti:
Nedda Nino Machaidze
Canio Bian Jagde
Tonio Amartuvshin Enkhbat
Silvio Vittorio Prato
Beppe Matteo Falcier
Orchestra e coro del Teatro dell’Opera di Roma
Maestro del coro Ciro Visco

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