Sgarbi di memoria

La Salome di Richard Strauss, in scena 12 anni fa – marzo 2011 – al teatro Petruzzelli di Bari, era costruita su scelte illustrative piuttosto sofisticate. La scena non proponeva infatti una ricostruzione della reggia di Gerusalemme in cui è ambientata l’opera, basata sulla storia evangelica della figlia di Erodiade, Salomè, che esegue per il patrigno Erode la danza dei sette veli, e ottiene come ricompensa la testa di San Giovanni Battista, imprigionato perché pubblico accusatore dell’immoralità della madre. Ma faceva riferimento al più singolare e raffinato esempio di architettura “orientalista” italiana, l’ottocentesco castello di Sammezzano in provincia di Firenze: le scene di Ezio Frigerio erano lo sviluppo di una serie di fotografie di quel sito. Importanti anche le citazioni di Audrey Beardsley, artista che influenzò notevolmente il teatro del decadentismo e segnatamente quello di Oscar Wilde, l’autore del dramma che era stato il punto di riferimento primario del libretto dell’opera, scritto dalla poetessa Hedwig Lachmann. Citazioni evidenti in particolare nei costumi di Franca Squarciapino.

L’attualizzazione dello spettacolo all’epoca della composizione e non a quella degli eventi (tipico espediente del teatro di regia, oggi nel mirino di una vasta e sempre più agguerrita contestazione dai forti sostegni politici) non era però l’elemento che più aveva attirato l’attenzione mediatica. Un notevole clamore era sorto invece per le dichiarazioni del regista, secondo il quale la vicenda rispecchiava il “bunga bunga” allora all’attenzione delle cronache politiche e giudiziarie, con tanto di parallelismo fra personaggi dell’attualità e dell’opera. In un’intervista al Corriere del Mezzogiorno alla vigilia del debutto, ad esempio, si legge: «Ho voluto ricostruire una situazione leggendaria con riferimenti precisi a una vicenda dei nostri giorni: per cui Erode è Berlusconi, Erodiade la Minetti, mentre Salomé diventa Ruby Rubacuori». Spulciando sul Web, si trova del resto che il regista – abilissimo comunicatore e spregiudicato uomo politico – aveva parlato della sua idea all’allora presidente del consiglio, che l’aveva asseritamente trovata divertente, immaginando sé stesso nei panni del Battista. L’autore dello spettacolo, però, gli aveva replicato che il ruolo del premier era appunto quello di Erode, perché riservava a sé stesso quello del santo. Tanto è vero che alla fine la testa che veniva porta a Salomè su un vassoio d’argento aveva le sue fattezze. Di totalmente estranea alla drammaturgia, poi, c’era una figura muta, una donna dai folti capelli rossi abbigliata con una toga nera, severa spettatrice della vicenda da un palco di proscenio adeguatamente illuminato. L’allusione alla Pm milanese del caso Ruby era chiara. Alla fine, si legge nelle cronache, lo spettacolo aveva avuto un buon successo, ma non erano mancati i dissensi.

Quel regista era Vittorio Sgarbi. Il critico d’arte che oggi, da sottosegretario alla Cultura, polemizza sugli spettacoli che “mancano di rispetto” o “tradiscono” gli autori delle opere. Con conseguenze che possono arrivare alla grottesca sceneggiata di Alberto Veronesi, auto-bendatosi a Torre del Lago per non vedere La bohème sessantottina che stava dirigendo e che era stata bocciata dall’esponente del governo (https://www.lesalonmusical.it/ti-conosco-mascherina/). Sul tema, il critico sembra avere iniziato una vera e propria campagna. Pochi giorni dopo il caso toscano, ha attaccato aspramente Il Turco in Italia di Rossini che il 18 luglio ha inaugurato il festival di Martina Franca: uno spettacolo secondo Sgarbi (che parlava prima che fosse andato in scena, evidentemente valutando le foto di scena distribuite ai media) tale da “ridicolizzare” il compositore pesarese, perché la vicenda è ambientata negli Anni ’60 in un contesto balneare e con citazioni della commedia all’italiana. Non risulta che ci siano state ulteriori conseguenze, in stile – diciamo – versiliese.

Richard Strauss, si sa, era tedesco ed è per questo – forse – che già 12 anni fa poteva essere ridicolizzato o banalizzato o strumentalizzato senza problemi particolari. Nelle sue dichiarazioni incendiarie contro il teatro di regia, infatti, Sgarbi specifica sempre che la sua crociata contro i registi “infedeli” è volta a tutelare i musicisti italiani. Del resto, il discorso riguarda anche i manager: come ha detto recentemente, la Scala deve avere un sovrintendente italiano.

Quanto alla sua esperienza come regista d’opera, è poco conosciuta ma quantitativamente non insignificante, anche se ovviamente sovrastata dalla sua multiforme attività, legata da un lato agli incarichi politico-amministrativi multipli e sovrapposti e dall’altro all’esercizio della sua vocazione originaria, quella di critico dell’arte dalla cospicua bibliografia, curatore di mostre, dirigente di istituzioni culturali. Senza trascurare la televisione e gli interventi pubblici di ogni ordine e grado, ultimo in ordine di tempo lo speech sessista-maschilista al Maxxi di Roma, causa a sua volta di una bufera mediatica.

Il debutto nell’opera risale alla primavera del 2002, quando Sgarbi era sottosegretario alla Cultura nel secondo governo Berlusconi (di lì a pochi mesi si sarebbe dimesso in polemica con il ministro Urbani). Il suo Rigoletto ha avuto una vita rappresentativa discreta, essendo stato ripreso varie volte in teatri di tradizione e rassegne operistiche. Lo spettacolo era caratterizzato da una illustrazione in chiave pittorica con riferimenti a Mantegna e Giulio Romano, i grandi pittori attivi a Mantova fra Quattro e Cinquecento. Quella volta, le polemiche divamparono sul possibile conflitto d’interessi da parte di un esponente del governo attivo in prima persona nel “mercato” dello spettacolo con un allestimento da lui stesso firmato. E non sarebbe mancata l’ironia sulla molto approssimativa conoscenza dell’opera e specialmente del libretto palesata da Sgarbi nella conferenza stampa-spettacolo di presentazione, prima di un’ampia serie.

Il collegamento fra opera e pittura ha poi caratterizzato quasi sempre l’attività sgarbiana come regista lirico, oltre a un tradizionalismo piuttosto generico nella drammaturgia, che ha indotto la critica a usare aggettivi come “dignitoso” o “equilibrato” per i suoi spettacoli

Nel suo curriculum si trova la rara L’Arlesiana di Francesco Cilea (da Daudet), presentata a Sassuolo nel 2006, caratterizzata dalle gigantografie di alcuni dipinti del Van Gogh “provenzale” proiettati sullo sfondo; più recentemente, una Vedova allegra di Lehár (Salerno, 2014) con riferimenti alla pittura di Giovanni Boldini e al palazzo Berzieri, sede storica delle Terme di Salsomaggiore, con la sua architettura liberty. A quell’epoca, l’exploit provocatorio della Salome barese era già alle spalle, così come era agli archivi La serva padrona di Pergolesi (parco di Follonica, estate 2008). Nel 2015, sempre a Salerno, sarebbe stata la volta di un Don Giovanni passato alle cronache, una volta di più, per l’incontro pubblico di presentazione, protagonista anche l’allora candidato alla presidenza regionale della Campania, Vincenzo De Luca. Per Sgarbi, riportavano le cronache, Don Giovanni è un personaggio “in tutto e per tutto positivo, spavaldo e solare”. E lo paragonava proprio a De Luca. La maggiore trovata visiva dello spettacolo consisteva nella proiezione di alcune immagini del Sacro Bosco di Bomarzo, nel Viterbese, con le sculture “mostruose” a identificare l’ingresso dell’inferno in cui finisce il dissoluto punito. Suggestivo, ma non sufficiente per proseguire l’itinerario mozartiano con Così fan tutte, progetto mozartiano allora annunciato per l’anno seguente, ma a quanto pare rimasto lettera morta.

L’esperienza operistica di Vittorio Sgarbi, ironia della sorte, si è fermata sulla soglia della “Scuola degli amanti”, come recita il sottotitolo di Così fan tutte. Ma non si può escludere che la campagna contro le regie considerate “mistificatorie” preluda a una sua nuova discesa in campo nella lirica. Il fatto di essere esponente del governo non lo fermerebbe, come non lo fermò nel 2002. Semmai, qualcosa ci dice che eviterebbe le provocazioni sull’onda dell’attualità politico-giudiziaria, che avevano caratterizzato la Salome del 2011. Per ora, comunque, il critico ferrarese si accontenta del ruolo di difensore dei compositori italiani. Ma da tuonare contro i registi “dissacratori” a mettersi al loro posto, da qualche parte lungo la Penisola dei mille teatri e dei cento festival, il passo non è poi così lungo. Lo facesse, nell’Italia 2023 non si stupirebbe nessuno.

Cesare Galla

Articolo pubblicato originariamente sul quotidiano on line Lettera43, che ringraziamo:
https://www.lettera43.it/sgarbi-lirica-veronesi-la-boheme-il-turco-in-italia-regia-salome-berlusconi-ruby-don-carlo/

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