Venezia: Maria egiziaca dimidiata Thaïs

Rappresentata per la prima volta a New York – Carnegie Hall 1932 – in forma di concerto la Maria Egiziaca, mistero in tre episodi, di Ottorino Respighi torna dopo quattordici lustri a Venezia in un allestimento interamente affidato a Pier Luigi Pizzi che ne cura regia, scene, costumi e video, questi ultimi diventati da un paio d’anni a questa parte la cifra del rinnovamento dell’estetica teatrale di un “ragazzaccio” che doppiata la boa dei novant’anni non ha perso la voglia di sperimentare e di mettersi in gioco. Le luci sono invece affidate a Fabio Barettin.

Per quello che attiene all’opera in sé non siamo davanti ad un capolavoro: il libretto di Claudio Guastalla è di insopportabile saccenza, intriso di un dannunzianesimo lezioso e votato alla rima baciata e la musica di Respighi non spicca mai realmente il volo – se non nelle tre Introduzioni evocatrici di atmosfere astratte – limitandosi a spruzzare un po’ di Monteverdi qua e un po’ di Gregoriano là, insaporendo il tutto con un intingolo alla Bach, con l’orchestra quasi sempre a raddoppiare le voci, queste ultime impegnate in un canto assai vicino a quello verista. In estrema sintesi una Thaïs che non ce l’ha fatta.

Decidendo di rappresentare scenicamente la Maria Egiziaca – nel 1956 alla Fenice lo aveva fatto Franco Enriquez, inserendola in un trittico del quale facevano parte il Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi e Mavra di Stravinskij, improponibile al pubblico “mordi e fuggi” che oggi frequenta i teatri – Pizzi, da uomo di teatro accorto, sceglie l’unica opzione possibile, ovvero quella di prendere sul serio e integralmente, salvo qualche piccola licenza, l’opera, senza stravolgimenti o “interpretazioni”, lasciando così il giudizio finale allo spettatore.

L’impianto scenico è essenziale ove non minimalista: un praticabile snello, due porte laterali e pochi altri elementi in cui i colori del legno e della sabbia predominano; sul fondo le proiezioni – quasi tutte pertinenti – sono un omaggio di Pizzi all’amico pittore surrealista Fabrizio Clerici.

Il gesto teatrale è rarefatto, evocatore più che descrittivo – gli unici movimenti veri sono affidati ad una danzatrice – quasi a voler contenere la ridondanza verbale del canto.

Manlio Benzi concerta in perfetta sintonia con l’idea registica, esaltando i punti di forza della partitura respighiana e smussandone al contempo le parti meno efficaci. Ne consegue una lettura tersa nella trama melodica, ricca di spunti agogici e ben calibrata nel fraseggio.

Nel ruolo-titolo Francesca Dotto esibisce un canto sicuro nella linea oltre che ricco di accenti e colori, così come Simone Alberghini si disimpegna assai bene nel doppio ruolo del Pellegrino e dell’Abate Zosimo.

Bene fa anche Vincenzo Costanzo, squillo sicuro e bello smalto, impegnato come Marinaio e Lebbroso.

Di grande presenza, non solo vocale, Michele Galbiati (Un compagno), Luigi Morassi (Un altro compagno, Il povero) e William Corrò (Una voce dal mare).

Bene anche Ilaria Vanacore (La cieca, La voce dell’Angelo) e la danzatrice Maria Novella Della Martira.

Ottima la prova del coro, sempre fuori scena, preparato da Alfonso Caiani.

Pubblico soddisfatto al termine dell’ora e dieci di spettacolo e applausi per tutti.

Alessandro Cammarano
(8 marzo 2024)

La locandina

Direttore Manlio Benzi
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Light designer Fabio Barettin
Personaggi e interpreti:
Maria Francesca Dotto
Il pellegrino, L’abate Zosimo Simone Alberghini
Il marinaio, Il lebbroso Vincenzo Costanzo
Un compagno Michele Galbiati
Un altro compagno, Il povero Luigi Morassi
La cieca, La voce dell’Angelo Ilaria Vanacore
Una voce dal mare William Corrò
Danzatrice Maria Novella Della Martira
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del coro Alfonso Caiani

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