Roma: la Salome senza concessioni di Kosky

Torna dopo diciassette anni la Salome di Richard Strauss al Teatro dell’Opera di Roma, nell’allestimento dell’australiano Barrie Kosky messo in scena nel 2020 all’Opera di Francoforte.

A dirigere la produzione romana è uno dei grandi specialisti nel repertorio tardoromantico, Marc Albrecht, già direttore musicale del Teatro di Stato di Darmstadt e premiatissimo per il De Nationale Opera di Amsterdam. All’Opera di Roma nel 2001 aveva   diretto un Tristan in forma di concerto. Ma  adesso forgia i cento elementi dell’Orchestra del Teatro dell’Opera con una intensità straordinaria in grado di restituire tutta la potenza di una partitura sublime che conosce da quando era ragazzo e considera il suo cavallo di battaglia,  con le sue armonie velenose e inconcludenti, gli accordi apparentemente semplicissimi e però improvvisi, le battute sospese, i tempi  estremi, ora sincopati e lacerati, ora languidi e avvolgenti, che passano dal fortissimo alla levità melodiosa di Mendelssohn, con tutti gli ingredienti di una ricetta misteriosa di una modernità dirompente.

L’allestimento di Barrie Kosky nella sua estrema e   semplicità s’inchina all’assoluta sovranità della musica, persino quando ricorre a espedienti di grande effetto o a scorciatoie inattese.

Una grande scatola nera avvolge il palcoscenico nel buio. Privo di ouverture, preceduto da strani suoni posticci, non si sa se emessi da animali ansimanti o dal rumore delle catene di una prigione, l’atto unico composto nel 1905 da Richard Strauss su libretto di Hedwig Lachmann tratto dalla pièce di Oscar Wilde, si apre in medias res.

Un unico fascio di luce illumina il nero della scena puntando una figura lunare, con un lungo abito bianco latte e in testa una corona di enormi spighe bianche.

È Salome nella sua natura lunatica, la principessa giudaica, che intrepretata dal  soprano Lise Lindstrom, entra in scena preceduta dai commenti di Narrabooth il paggio e i soldati di Erode, e subito dopo ricompare scalza, con indosso un vestitino di lamé d’argento e dando le spalle all’orchestra comincia a saltellare da un lato all’altro del palcoscenico mimando una sorta danza.

In questa regia epurata e concentrata sull’essenza di un amore impossibile, la vera danza non sarà quella dei sette veli, bensì la danza tra lussuria e compassione che Salome conduce con Jochanaan, il profeta ebreo seguace di Cristo, prigioniero nel palazzo del patrigno. Tanto lei cerca di sedurlo, attratta dal biancore del corpo, dal nero dei capelli, dal rosso delle sue labbra, tanto lui resiste alla figlia di Sodoma, cerca di schivarla, la tiene a distanza.

Ma la passione è più forte della fede, ed ecco che i due sembrano abbandonarsi al languore irresistibile, sin quasi a cedere alle effusioni, con lei che insiste nell’abbraccio lascivo di lui, e lui che   finisce per cingere con le sue mani la testa di lei, quasi a volerla proteggerla, benedire e redimerla prima di consegnarla al Signore.

Per questo, al momento della Danza dei sette veli non c’è sorpresa. La danza semplicemente viene meno, sostituita da un rituale solipsistico ad alta densità simbolica, forse ispirato da “Interior Scroll”, la performance del 1975  di Carolee Schneeman  in cui l’artista americana, nuda, si sfilava dalla vagina un rotolino di carta per leggerlo davanti a una platea di spettatori. Seduta per terra con le gambe divaricate, ma vestita di nero, qui la Salome di Barrie Kosky, mimando e ritmando coi gesti ogni nota della partitura, estrae dal proprio sesso la matassa infinita di capelli ramati, metonimia della sua passione delirante e autoalimentata per il profeta ebreo che non l’ha degnata di uno sguardo, non l’ha voluta, e per questo è condannato a morire.

Così l’ambivalenza, la perversione e la follia dell’opera di Strauss vengono esaltate dalla sobrietà radicale di un allestimento estremo e senza concessioni, dove i veri  protagonisti sono i fasci di luce di Joachim Klein, i personaggi vengono punteggiati per un attimo dall’occhio di bue, prima di scomparire nel nulla come ombre di se stessi. E le caratteristiche della partitura vengono portate al parossismo da dettagli espressionistici di fortissimo impatto. La mano di Erode che si agita nervosamente, nel momento in cui perde l’anello e la ragione. Il gancio che scende dall’alto, sostituendo il piatto d’argento, per acciuffare la testa del profeta sgozzata per volere di Salome. Salome che prima seduta, poi in piedi, poi di nuovo seduta, contempla ipnotizzata la testa mozzata di Jochaanan, la accarezza intingendo le dita nei capelli grondanti di sangue, e alla fine bacia la bocca vermiglia, che le restituisce “il sapore amaro dell’amore”. Un lungo bacio voluttuoso e irresistibile che suggella un commiato, prima che la testa del Battista decollato, appesa al gancio, inizi a vagare come un vaso di cuccagna da un lato all’altro della scena, per finire poi come una maschera mortuaria sul capo della stessa Salome, condannata a morte dal patrigno Erode.

Grande prova del soprano californiano d Lise Lindstrom, che regge sulla durata l’intensità del ruolo anche sul piano attoriale, nonostante l’accento americano in qualche battuta del parlato. Bella resa di Joel Prieto nel ruolo di Narraboth, ottima performance del tenore John Daszak, che interpreta un Erode neurolabile, prima sedotto e poi implacabile verso Salome,  e del mezzosoprano Katarina Dalayman, nel ruolo di Erodiade, moglie e madre perfida e incostante. Portentosa la potenza espressiva baritono Nicholas Borwnlee che nel ruolo di Jochanaan entra in scena con la sola voce, sillabando gli interrogativi lancinanti: “Wo ist er,  dessen Sündenbecher jetzt voll st? Wo ist er, der eines Tages im Angesichts alles Voles in einem Silbermantel sterben wird?  (Dov’è lui, la cui coppa di peccati è già colma? Dov’è lui che un giorno morirà, davanti a tutto il popolo, avvolto in un manto di argento?”).

Quando finalmente appare a torso nudo, con uno straccio sui fianchi, le mani sugli occhi per evitare la luce e le braccia strette nervosamente sul torace, l’emozione va  oltre la rappresentazione.

Del resto era questo lo scopo di Barrie Kosky, per il quale nell’opera di Strauss non c’è nulla da illustrare, nulla da rappresentare, nulla da spiegare.  È solo la musica a parlare, solo la musica si impone. E infatti tutto il resto è buio, nuda tenebra, senza forma, senza sagome, senza colore, a servizio di una partitura sovrana.

Marina Valensise
(7 marzo 2024)

La locandina

Direttore Marc Albrecht
Regia Barrie Kosky
Scene e costumi Katrin Lea Tag
Luci Joachim Klein
Drammaturgia Zsolt Horpácsy
Regia ripresa da Tamara Heimbrock
Personaggi e interpreti:
Erode John Daszak
Erodiade Katarina Dalayman
Salome Lise Lindstrom
Jochanaan Nicholas Brownlee
Narraboth Joel Prieto
Un paggio di Erodiade Karina Kherunts
Primo ebreo Michael J. Scott
Secondo ebreo Christopher Lemmings
Terzo ebreo Marcello Nardis
Quarto ebreo Eduardo Niave
Quinto ebreo / Secondo soldato Edwin Kaye
Primo Nazareno / Primo soldato Zachary Altman
Secondo Nazareno Nicola Straniero
Un uomo di Cappadocia Alessandro Guerzoni
Uno schiavo Giuseppe Ruggiero
Orchestra del Teatro dell’Opera

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