Vicenza: gli invisibili fantasmi di Britten

Il “giro di vite” sottolinea, nell’accezione più comune l’inasprimento di una pena. Nella novella lunga, o romanzo breve che dir si voglia, di Henry James aleggia terribile e palpabile l’incertezza: non conosciamo la colpa, o meglio le colpe, da espiare e, soprattutto non sono noti i colpevoli. Poco o nulla ci è dato sapere: James non narra fatti, trasmette sensazioni, lasciando il lettore in sospeso: gli accadimenti di Bly sono reali ovvero sono i deliri dell’Istitutrice, che li affida ad un diario? I fantasmi del demoniaco Peter Quint e dell’infelice Miss Jessel esistono e dispongono a loro piacimento di Miles e Flora, bambini tutt’altro che innocenti? In The turn of the screw non vi sono risposte, solo domande, interrogativi che danno luogo e vita ad altri interrogativi, il tempo appare sospeso in un limbo di follia strisciante.

Se il diario dell’Istitutrice narra fatti reali allora bisognerebbe dedurre che Miles e Flora, Miles soprattutto, hanno subito attenzioni non lecite da parte di Quint, col silenzio complice e colpevole di Mrs Grose, la vecchia governante.

Potrebbe essere vero anche il contrario: i bimbi sono davvero cattivi, Miles si definisce “bad” in più di un’occasione Peter Quint storpia il suo nome in “Malo”.

Un’unica certezza: il male incombe su Bly e i due fratelli scatenano forze che non controllano, vittime e colpevoli ad un tempo, come tutti gli altri. Ultimo, atroce interrogativo: il grido di Miles un attimo prima di cadere esanime “Peter Quint, you devil!” è una maledizione o una disperata richiesta d’aiuto? Non c’è morale nel romanzo di James, né redenzione per alcuno, solo un viaggio, tragicamente lucido, nel delirio.

Nello scrivere il libretto per Britten Myfwany Piper compie un passo avanti rispetto all’originale letterario dando voce ai fantasmi – in James sono presenze mute – che raccontano la loro versione dei fatti, acuendo ulteriormente la cappa di soffocante incertezza. Anche la caratterizzazione dei due fratelli diviene più spietata con il ricorso a filastrocche della tradizione inglese, le quali, per bocca di Miles e Flora perdono totalmente l’innocenza.

La musica, affidata ad un’orchestra di tredici elementi, è a sua volta “lieve” solo all’apparenza contribuendo a sottolineare e ad infittire l’aura di inconfessabile mistero che la percorre dissimulandola sotto un velo di innocenza.

L’allestimento presentato al Teatro Olimpico nell’ambito del Vicenza Opera Festival – coprodotto come sempre con il Mupa di Budapest – presenta non pochi elementi di perplessità a far principio dalla fruizione dello spettacolo stesso.

L’idea di ricorrere al “Fantasma di Pepper” messo a punto nel Diciannovesimo per dar vita a figure spettrali attraverso un gioco di camere oscure e vetri, è di per sé un’ottima idea, ma solo se l’interezza del pubblico ne può beneficiare.

Ivan Fischer, regista per diletto, Marco Gandini, il quale invece è navigato uomo di teatro e soprattutto conosce benissimo le insidie dell’Olimpico e Nils Corte cui sono affidati gli effetti spettrali realizzano uno spettacolo fruibile solo da una parte della sala – quello del settore centrale della cavea e neppure tutto – condannando chi siede ai lati dell’emiciclo a non poter godere del gioco di Pepper, concepito per una visione totalmente frontale.

Chi scrive – insieme ad altri colleghi della stampa chiamati a dar conto della serata – occupava un posto dal quale i vetri sui quali apparivano le illusioni ottiche erano semplicemente vetri: e dunque andato dunque perduto il punto focale della rappresentazione. Magari un po’ di attenzione durante le prove e qualche aggiustamento non sarebbero stati fuori luogo.

Per il resto la regia procede su binari di scontato calligrafismo, senza grandi idee eccezion fatta per gli “spostamenti” dei protagonisti mediante pedane telecomandate effetto robottino aspirapolvere che causano pure qualche momento di ilarità, come nel duetto Quint-Miss Jessel nel secondo atto, con gli spettri che sembrano andare in autoscontro aggrappati ciascuno alla propria lapide. Belli i costumi d’epoca di Anna Biagiotti ed efficace quanto basta il disegno di luci di Nils Riefstahl mentre la scena è di Andrea Tocchio.

Non convince neppure la lettura di Fischer – la Budapest Festival Orchestra, per inciso, si conferma come una delle migliori compagini a livello internazionale – che edulcora le asprezze timbriche, leviga dinamiche e pialla agogiche dando alla fine una versione dell’impaginato tanto patinata quanto antibritteniana; il suono è bellissimo, intendiamoci, ma privo di nerbo. Emblematica la passacaglia finale, che dovrebbe essere un cazzotto nello stomaco, qui derubricata a buffetto.

Eccellente di contro la compagnia di canto nella quale brillano le voci bianche di Ben Fletcher che dà voce e corpo ad un Miles tormentato e disperatissimo – il tutto con un’intonazione pressoché perfetta e una presenza scenica impeccabile – e di Lucy Barlow Flora di grande carattere.

Accanto a loro gli “adulti che cantano davero benissimo: l’Istitutrice indomita di Miah Persson che padroneggia un fraseggiare limpido e partecipe, il Peter Quint perfetto nei colori e nella linea di canto di Andrew Staples, la Mrs Grose incredula di Laura Aikin e la Miss Jessel angosciata – qui in versione Sposa Cadavere di burtoniana memoria –di Allison Cook.

Olimpico esaurito e successo travolgente di pubblico.

Alessandro Cammarano
(21 ottobre 2022)

La locandina

Direttore Iván Fischer
Regia  Iván Fischer e Marco Gandini
Assistente alla regia Hannah Gelesz
Costumi Anna Biagiotti
Scene Andrea Tocchio
Luci Nils Riefstahl
Effetti speciali Nils Corte
Personaggi e interpreti:
The Governess Miah Persson
Mrs Grose Laura Aikin
The Prologue e Peter Quint Andrew Staples
Miss Jessel Allison Cook
Miles Ben Fletcher
Flora Lucy Barlow
Budapest Festival Orchestra

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