Vicenza: il Ritorno di Monteverdi all’Olimpico

La “mise en éspace” del Ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi al teatro Olimpico – recente anteprima del 71° Ciclo di Spettacoli Classici – era allo stesso tempo una prima assoluta per Vicenza e il completamento della trilogia operistica monteverdiana sulle scene palladiane, visto che già vi erano state rappresentate L’Orfeo e L’incoronazione di Poppea. Doppia valenza musicale e culturale in senso lato, dunque, per l’ambiziosa e coraggiosa produzione guidata musicalmente da Margherita Dalla Vecchia, organista e direttrice d’orchestra vicentina che con il suo ensemble “Il Teatro armonico” frequenta ormai da anni – prima come assistente di Michael Radulescu e quindi autonomamente – il grande repertorio barocco, lungo un percorso iniziato con Bach e poi variamente ampliato.

Il ritorno di Ulisse fu rappresentato per la prima volta a Venezia nel 1640, cioè poco più di mezzo secolo dopo l’inaugurazione dell’Olimpico, e risponde in maniera straordinaria sia al gusto nascente dello spettacolo melodrammatico barocco, con i suoi “effetti speciali”, sia all’esigenza del suo grande autore di esprimere il proprio inconfondibile “stile rappresentativo” con una scrittura particolarmente varia specialmente sul piano vocale. Per quanto sia nota, la storia che il librettista Giacomo Badoaro riprende dall’Odissea consente uno sviluppo romanzesco e una bella serie di colpi di scena utili ad espedienti teatrali di grande presa, dalle scene marine a quelle con le divinità dell’Olimpo, per non parlare del clou con la prova dell’arco e la strage dei proci alla corte di Itaca, preceduta dal volo malaugurante di un’aquila sulle teste dei pretendenti di Penelope. Situazioni che certamente venivano rappresentate in modo da suscitare meraviglia e ammirazione nel pubblico.

La nativa “spettacolarità” della penultima opera di Monteverdi è quindi distante dall’atmosfera monumentale dell’Olimpico. Ad esso è molto vicina, invece, la caratteristica espressività del musicista, che mette a punto – come dice il sottotitolo dell’opera – una “tragedia di lieto fine” nella quale la tecnica del “recitar cantando” si sposta verso una linea vocale di esemplare profondità psicologica, trascolorando dal recitativo all’arioso, fino a raggiungere in certe situazioni un declamato quasi naturalistico di grande effetto. Un clima espressivo che aderisce idealmente al teatro Olimpico e che è stato in certo modo ulteriormente sottolineato dalla scelta della regista Deda Cristina Colonna di utilizzare come unico elemento scenografico le due piccole cavee lignee ideate anni fa da Mauro Zocchetta per il Laboratorio dell’Accademia Olimpica, che generano un effetto di “rispecchiamento” fra la scena e chi assiste seduto sulle gradinate. Questi elementi, dotati di piccole ruote, sono stati continuamente spostati a vista, staccati e ricomposti in varie configurazioni geometriche durante lo spettacolo, a disegnare in maniera del tutto stilizzata non solo le mutazioni di scena ma soprattutto quelle di clima psicologico nel mondo degli uomini. Aulica e monumentale, invece, la presenza degli dei, sempre collocati su alcuni piedistalli, quasi replica delle statue della “frons scenae”.

Soluzioni interessanti che non hanno impedito una certa staticità complessiva, forse determinata anche dal fatto che si è scelto di collocare ai due lati del palcoscenico gli esecutori strumentali – da un lato il basso continuo, dall’altro gli strumenti per i numerosi Ritornelli e Sinfonie – finendo per “bloccare” al centro gli attori-cantanti, abbigliati per lo più con abiti moderni e “neutri” ma ravvivati da elementi stilizzati e di arcaica eleganza, pensati da Ricchezza Falcone.

Scorciata di varie scene e di alcuni passaggi vocali non secondari (ma drammaturgicamente non indispensabili), l’esecuzione musicale è stata condotta da Margherita Dalla Vecchia con resa strumentale migliore nella piccola orchestra (interessante la presenza dei cornetti a fianco dei tromboni) che nel basso continuo, forse un po’ troppo omogeneo timbricamente. Agguerrita e assai ben composta la compagnia di canto, che aveva la sua “stella” in Furio Zanasi, reputato interprete di notorietà internazionale, che ha dato ad Ulisse raffinate sottigliezze “recitative” e notevole intensità di espressione. Al suo fianco bene si sono proposte la drammatica, sofferta Penelope di Marina De Liso, la sensuale Melanto di Dalma Krajnyak, la partecipe Ericlea di Giulia Mattiello. Fra gli uomini, i proci erano Marco Bussi (Antinoo) Alberto Miguelez Rouco (Pisandro) e Andrea Barbato (Anfinomo), che hanno delineato nelle scene d’insieme una bella e composita tavolozza timbrica. Alessio Tosi ha dipinto la celebre scena del parassita Iro trovando gli accenti della tensione grottesca e dello sgomento esistenziale che fanno di questo brano un singolare capolavoro monteverdiano. Fra gli altri, da citare Jimin Oh per la brillante coloratura con cui ha reso la parte di Minerva; Emanuele D’Aguanno, misurato e preciso nel doppio ruolo di Telemaco e Giove; Giovanni Biswas, Eurimaco di lucida presenza scenica e appropriata vocalità. E ancora, l’elegante Cristina Baggio, Giunone, e Jose Coca Loza, Nettuno di notevole qualità timbrica anche nella zona più grave della tessitura, su cui spesso la parte insiste.

Alla seconda rappresentazione, quella che abbiamo seguito, pubblico non da tutto esaurito, ma partecipe e prodigo di applausi anche a scena aperta.

Cesare Galla
(23 settembre 2018)

La locandina

Soli, Coro e Orchestra barocca Il Teatro Armonico
Direttore e maestro al cembalo Margherita Dalla Vecchia
Mise en espace Deda Cristina Colonna
Light designer Vincenzo Raponi
Stylist Ricchezza Falcone
Personaggi e interpreti:
Ulisse Furio Zanasi
Penelope Marina De Liso
Telemaco Emanuele D’Aguanno
Ericlea Giulia Mattiello
Melanto Dalma Kraniak
Eurimaco Giovanni Biswas
Giove Antonio Orsini
Giunone Cristina Baggio
Minerva Jimin Oh
Nettuno – Antinoo José Coca
Iro Alessio Tosi
Humana fragilità – Pisandro Alberto Rouco Miguelez

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