Verona: Didone trapassa fra le colonne del Maffei

Lo streaming è un metodo di realizzazione e di fruizione dell’opera determinato dalla situazione in cui ci troviamo a vivere. Una soluzione nata per l’emergenza ma in grado di assumere – nei casi migliori – valori autonomi decisamente innovativi e coinvolgenti. Lo prova uno degli spettacoli più intriganti cui mi sia capitato di assistere da un anno a questa parte: si trova sulla pagina YouTube della Fondazione Arena, al link https://youtu.be/gNo9amZ3_gw, e propone il terzo appuntamento della stagione lirica al Teatro Filarmonico di Verona. Si tratta di un inedito dittico a tema – anzi, “a personaggio” – cronologicamente collocato fra il Settecento napoletano di Niccolò Jommelli e della sua Cantata Didone abbandonata e il capolavoro operistico di fine Seicento di Henry Purcell, quell’ammaliante “opera sintetica” che è Dido and Aeneas.

Dal punto di vista formale, la Dido veronese è la ripresa di uno spettacolo firmato da Stefano Monti, regista, scenografo e costumista, per il Teatro Pavarotti di Modena. In realtà, anche senza avere visto quello spettacolo, non è difficile considerare la proposta del tutto nuova, al di là degli elementi comuni costituiti almeno in parte da quanto si vede sul palcoscenico e dai costumi. Monti non si è infatti limitato ad adattare al nuovo palcoscenico (e alle inedite norme relative alla sicurezza anti-COVID) l’allestimento già creato. Ha realizzato una rappresentazione inscindibilmente legata allo spazio in cui si è svolta (gli anglo-americani la risolvono in due parole: “site specific”), che si allarga all’intero teatro e lo fa anche grazie a una serie di invenzioni che lo rendono molto simile a una sorta di “installazione”.

Per dire, il rapporto con le platee desolatamente vuote dei nostri teatri in questi mesi è stato affrontato secondo coordinate piuttosto chiare e spesso senza troppa fantasia. In molti casi sono state letteralmente cancellate, togliendo tutte le poltroncine o coprendole con piattaforme su cui poi si allargavano cantanti ed esecutori; altre volte sono state semplicemente ignorate, lasciando gli esecutori nei loro spazi abituali. A quel punto, l’alternativa passava ai sistemi di ripresa: si è assistito a streaming che ignoravano accuratamente quel triste vuoto, quasi si volesse rimuoverlo, e ad altri che invece non nascondevano la realtà, magari la sottolineavano.

Non mi era ancora capitato di vedere una soluzione come quella di Monti: la (vasta) platea del Filarmonico “impacchettata” sulla scorta di tanti lavori di Christo; e la superficie ondulata che ne risulta trasformata in una suggestiva “rappresentazione” del mare, tramite fatale della tragedia della regina di Cartagine, con qualche modellino di veliero sparso tra i flutti e il gioco delle luci (Paolo Mazzon) determinante nel suggerire situazioni insieme psicologiche e narrative, dalla notte delle streghe alla partenza dell’eroe troiano per andare alla fondazione di Roma.

Portata l’orchestra a livello di platea, e quindi fuori dalla buca, lo spettacolo delinea poi una sorta di continuità anche spaziale con il palcoscenico, sul quale pochi elementi – un paio di pedane, finestre sghembe che si aprono sul fondo per consentire un accattivante gioco di teatro di figura – sono funzionali a una lettura stilizzata, ben individuata nel gusto dei costumi, “modernisti” ma anche nitidamente ispirati al gusto della Restaurazione inglese. La stringente, super-concentrata drammaturgia di Purcell trova così una resa immediata e profonda, sottolineata dall’essenzialità spesso allusiva (anche grazie al gioco delle luci) e sempre poetica degli oggetti e della loro simbologia. Esemplare, da questo punto di vista, la scena della caccia e degli amori fra Didone ed Enea nel secondo atto.

Secondo consuetudine (ormai è così) la collocazione del coro nei palchi, peraltro con una semplicità e un’efficacia anche gestuale di ottimo rilievo, così come assai studiata e coinvolgente – fra consapevolezza della prassi antica e sensibilità moderna – è la presenza scenica dei personaggi. Fino al “coup de théâtre” della conclusione, che ha certificato anche il taglio cinematografico della proposta (adeguatamente dettagliate le riprese, dirette da Francesco Stelluti Scala). Lo spettatore assiste all’altera uscita dalla platea di Didone, al suo passaggio attraverso la Sala Maffeiana e al suo arrivo nel pronao del Filarmonico, la facciata monumentale che si affaccia sul “lapidario” fondato da Scipione Maffei nel primo Settecento, con i suoi tanti reperti romani. Lì, fra le colonne del mito classico rinascente e perpetuato grazie al suo sacrificio, mentre si spegne la dolente musica della Danza degli Amori, muore infine la regina di Cartagine.

In tutto adeguata all’eleganza dello spettacolo la resa musicale. Alla testa degli archi dell’orchestra areniana – strumenti moderni ma un’evidente attenzione per le coordinate di un’esecuzione “storicamente avvertita” – il giovane direttore Giulio Prandi, al debutto al Filarmonico, ha offerto un’interpretazione capace di sottolineare il fascino di una partitura geniale come quella di Purcell, “sentimentalmente” ricchissima di sfumature, dalla potente soggettività espressiva sia nell’ampia campitura strumentale che nella scrittura vocale. Misura e dolorosa profondità, emozione e mistero (specie nel secondo atto) si sono dispiegati con semplice e convincente efficacia, fino all’asciutta, commovente poesia della tragica conclusione, nel segno di uno dei Lamenti più belli nella storia della musica.

In compiuta sintonia la compagnia di canto, con Josè Maria Lo Monaco a disegnare una Didone prima dolente e poi disperata, ma sempre altera e nobilissima, grazie a una linea di canto impeccabile e a un colore elegante, sofisticato. Assai bene anche Maria Grazia Schiavo nel ruolo di Belinda, consigliera e amica della regina, accorata ed espressiva, ben affiancata da Eleonora Belllocci nella parte della Seconda Donna.

Le contraddizioni e le sofferenze di Enea hanno avuto in Renato Dolcini un interprete musicalmente e vocalmente accorto; spigliata, giustamente esuberante la pattuglia delle streghe, capitana da Lucia Cirillo e composta anche da Federico Fiorio e Marta Redaelli. Completavano il cast Raffaele Giordani (il marinaio) e Tony Contartese, che in locandina firma anche gli eleganti movimenti mimici.

Concentrato e coinvolto sia musicalmente che scenicamente il coro preparato da Vito Lombardi.

Prima di assumere il ruolo di Belinda nella tragedia di Purcell, il soprano Maria Grazia Schiavo ha sostenuto il ruolo protagonistico nell’interessante Cantata di Jommelli “Giusti Numi che il ciel reggete”, sintetica rivisitazione del mito di Didone che offre una sorta di pregevole “istantanea” di come la scuola napoletana facesse dell’argomento metastasiano l’occasione di una sintesi fra belcantismo e teoria degli affetti. Dal punto di vista scenico, Stefano Monti ha collocato l’interprete nel punto di passaggio fra sipario semichiuso e proscenio: un prologo simbolico di intrinseca teatralità. Quasi una metafora della dura realtà del teatro e della musica oggi.

Cesare Galla
(28 marzo 2021)

La locandina

Niccolò Jommelli
Didone Abbandonata
Direttore Giulio Prandi
Soprano Maria Grazia Schiavo
––––––––
Henry Purcell
Dido and Æneas
Direttore Giulio Prandi
Regia, scene e costumi Stefano Monti
Responsabile movimenti mimici Tony Contartese
Luci Paolo Mazzon
Personaggi e interpreti:
Dido  José Maria Lo Monaco
Æneas Renato Dolcini
Belinda Maria Grazia Schiavo
Second Woman Eleonora Bellocci
Sorceress Lucia Cirillo
First Witch / Spirit Federico Fiorio
Second Witch Marta Redaelli
Sailor Raffaele Giordani
Jack Tony Contartese
Orchestra, coro e tecnici dell’Arena di Verona

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