Ascoltiamoli a casa loro: libere riflessioni dal Concorso Busoni 2021

Il Premio Busoni va in Corea del Sud. Non che sia una novità, la forza della scuola pianistica coreana è stata ampiamente provata a livello internazionale e lo stesso Festival Busoni organizzò nel 2018 uno splendido Symposium dedicato alla Corea, con ampi approfondimenti e la possibilità di ascoltare a Bolzano tutti i pianisti coreani vincitori di grandi concorsi degli ultimi anni, mentre a presiedere la giuria delle preselezioni in quegli stessi giorni era Yeol Eum Son. Ci si trova oggi di fronte ad un fenomeno non poi così diverso da quando i giovani pianisti russi dominavano le classifiche dei concorsi (cosa che hanno peraltro ancora la tendenza a fare). L’organizzazione efficiente ed efferata della didattica russa di allora e coreana di oggi si è più volte dimostrata all’altezza delle competizioni. Solo delle competizioni, si potrebbe commentare malignamente. Ma la carriera internazionale di Yeol Eum Son, Sunwook Kim, Seong Jin Cho, e anche della stessa Chloe Mun, che vinse il Busoni nel 2015 e prima il Ginevra nel 2014, dimostra che il loro successo non si ferma alle classifiche.

Eppure, molte critiche al Concorso sono nate già nel passaggio dalla finale cameristica a quella con orchestra, proprio perché due coreani su tre finalisti sono troppi, bisogna far passare un italiano, un russo, chiunque purché sia occidentale. Mi permetto di essere qui un po’ polemico: il tenore di molti commenti era poco distante da “ascoltiamoli a casa loro”. Questa sorta di protezionismo eurocentrico (inteso come cultura, non come istituzione) assume spesso la sfumatura retorica della difesa contro l’invasione, in questo caso di un’industria genericamente asiatica (non si fanno distinzioni, è tutto lo stesso brodo) che produce musicisti in serie. Se si abbandonasse questo grido alla crisi dell’Occidente e si andasse oltre il nome del candidato per ascoltarne l’arte senza pregiudizi, ci si renderebbe conto dell’infondatezza di questi stereotipi. La stessa finalissima del Busoni 2021 dovrebbe fugare ogni dubbio: se c’erano due musicisti diversi erano proprio Park, primo premio, e Kim, secondo.

Tolte queste considerazioni dal campo, dunque, proviamo a riflettere serenamente su questo Concorso Busoni. Come giustamente osserva Monique Ciola su queste pagine (QUI l’articolo), una giuria non valuta una sola prova, ma l’interezza del concorso, peraltro seguito interamente in sala. Qui si aprono due possibili considerazioni, la seconda delle due riguarda proprio il rapporto sala-streaming. Nonostante la qualità della fruizione a distanza sia anno dopo anno sempre più alta (e per questo vanno i miei complimenti a Riccardo Radivo e a tutto il team di 2R) non c’è paragone con la presenza in sala. Non è tanto per questioni di qualità del suono (il problema è semmai il supporto su cui poi lo ascolti), ma proprio per il fatto che l’acustica della sala è l’acustica con cui si confrontano candidati e giurati. Sia in Auditorium che al Teatro Comunale, ai pianisti è stato richiesto di riempire sale non semplici, proiettando grandi quantità di suono e marcando notevolmente i contrasti dinamici. Mi è capitato di scambiare commenti su candidati che nello streaming avrebbero pestato o sfoderato suoni secchi e aspri, mentre dalla sala la sensazione era di un suono molto ampio, oppure molto diretto, capace di correre fino in fondo. Considerando quanto l’attacco del tasto e in generale il suono incida su un’esecuzione, arrivando anche a giustificare scelte di colori e di fraseggi, quando si seguono i concorsi in streaming bisogna sempre fare attenzione.

Mi chiedo dunque se sia il caso di spostare il voto del pubblico unicamente sull’online, come è stato fatto in questo Busoni, togliendo la possibilità ai partecipanti di esprimersi ed esponendosi al rischio di un voto spesso più legato a dinamiche quali la presenza di un seguito abbondante sui social o il far bella figura sugli schermi. È il caso ad esempio di Petrov, passato per il voto online alle preselezioni, unico di quelli votati dal pubblico a proseguire dopo la prima prova e poi vincitore del premio del pubblico nonostante non sia arrivato in finalissima (e nonostante una finale cameristica veramente pessima). Siamo ormai tutti convinti dell’importanza di sapersi costruire un seguito, ma questo non può sostituirsi al carisma dell’artista sul palco. Forse sarebbe più opportuno sdoppiare il premio: uno per il pubblico a casa sui 12 finalisti, uno per il miglior concerto per pianoforte e orchestra da dare alla Finalissima.

La seconda considerazione riguarda il senso: a cosa serve un concorso? Sicuramente ad offrire una modalità di dialogo con il pubblico diverse rispetto al solito: prima che qualcuno tiri fuori Bartók e i cavalli, bisognerebbe seriamente fare una riflessione sul potere divulgativo che i grandi concorsi possiedono. Centinaia di persone che normalmente non seguono concerti e rassegne, improvvisamente si ritrovano a seguire con la massima concentrazione tre lunghi concerti per pianoforte e orchestra. Perché? Non solo per l’elettricità nell’aria, per l’ufficialità della serata, per l’attenzione mediatica, ma anche per la possibilità di sentirsi tutti chiamati ad esprimere il proprio parere. Mai come in sala da concerto si sente ripetere “non sono un esperto ma…”. L’espressione di un parere sembra essere necessariamente essere accompagnata da un disclaimer preventivo, anche quando si tratta di un proprio gusto personale. Ad un concorso invece tutti sono titolati a dire “mi è piaciuto di più Tizio rispetto a Caio e Sempronio” e lo stesso concorso li esorta a dare un loro parere, a votare, ad interagire (parola chiave nel nostro secolo, lo sappiamo).

Per i concorrenti in gara, però, a cosa serve il concorso? A costruirsi una carriera, è la risposta più semplice. Come più volte affermato dal direttore artistico del Busoni, Peter Paul Kainrath, i concorsi sono piattaforme in cui più uno procede, più ha possibilità di farsi notare, a prescindere dal suo posizionamento conclusivo. Non sono poche le competizioni che negli ultimi anni stanno sempre più indebolendo la struttura piramidale delle loro classifiche per facilitare questa trasformazione in piattaforme. Il concorso stesso, però, dà un concreto aiuto ai suoi vincitori, in particolar modo al primo premio, e dunque abbisogna di un cavallo solido, che possa andare in tournée già qualche giorno dopo la finalissima per cavalcare l’onda dell’attenzione. È un’azione che promuove non solo il concorrente ma anche il concorso, che se ne serve per confermare la propria autorevolezza e dunque a sbloccare ulteriori porte per i suoi vincitori. Servono nervi di acciaio e mani di adamantio per sostenere le pesanti tournée e le pressioni che seguono l’essere un Premio Busoni. Una giuria accorta non può non riflettere su chi sia il candidato più convincente per questo ruolo, anche al di là del personale gusto. D’altronde anche questo espone ad un grande rischio, ossia di insistere troppo sulla stabilità. La conseguenza è che alla fine possa vincere sempre il musicista corazzato, che raramente è il più interessante o quello che prende i maggiori rischi (e i rischi sono fondamentali per l’arte).

Non ho amato molto Park, la sua decantata Hammerklavier mi è parsa affannosa, proiettata solo sulla velocità anche se notevole nella tenuta, ma posso capire la scelta della giuria. Molto più disuguale è stata la resa di Kim nel corso dell’intero Busoni, con vette e abissi anche nello stesso brano (si osservi il Quintetto di Schumann affossarsi nello Scherzo dopo i fantastici primi due movimenti). Il risultato di venerdì 3 settembre, dunque, è un risultato che, stante il livello e le scelte fatte nelle prove solistiche, non posso che considerare soddisfacente, con tutta la distanza che c’è tra soddisfazione ed entusiasmo. È nel lungo tempo che si vede se un musicista aveva non solo l’abilità, ma il desiderio di fare carriera, con tutti i sacrifici che impone. Non resta dunque che restare a guardare.

Alessandro Tommasi

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