La musica è il dialogo di cui abbiamo bisogno – Intervista a Jordi Savall

Protagonista a Lugano il 19 aprile di un concerto dedicato alle Sonate e suite di Couperin Les Nations con il suo ensemble (non a caso) Le Concert des Nations, Jordi Savall è leggendario non solo per la sua vastissima attività musicale, divisa tra fiumi di concerti e incisioni, ma anche per la sua visione sulla musica del passato e sul mondo di oggi, una visione coltivata in oltre 50 anni di carriera e 81 di vita. Ho modo di raggiungerlo telefonicamente per discutere del suo concerto a Lugano, ma la conversazione, com’era prevedibile, si espande presto altrove.

  • Prima di addentrarci nel cuore dell’opera, prendiamo un momento per presentare questo capolavoro spesso poco noto al pubblico. Che cos’è Les Nations di Couperin?

È un’opera molto particolare, su cui spende molti anni. Nasce infatti quando Couperin è ancora giovane e poco noto, al punto che si firma con un nome italiano in quanto temeva che, da francese, il pubblico non si sarebbe interessato a queste tre suite, composta sotto l’influenza della musica italiana e soprattutto di Corelli ma con gusto già personalissimo. Invece, questa prima versione ha un successo enorme e il compositore le ripubblicherà usando il proprio nome vero. Molto più tardi, quasi settantenne, vi tornerà e completerà le tre suite (cambiandone i titoli in la Françoise, l’Espagnole, la Piémontoise) con la Impériale. Queste quattro suite mostrano con chiarezza una maestria e un’ispirazione straordinarie che passano dalla ricerca di Couperin per evocare l’essenza di ogni nazione.

  • Questo si esprime anche nella strumentazione?

Couperin non è esplicito su questo punto, ma la scrittura può combinare molto facilmente un gruppo di fiati e un gruppo di archi, più il cembalo e tutto il necessario per il continuo. Solo l’ultima suite aggiunta, la Impériale, ha una scrittura chiaramente violinistica e la proponiamo per violino e basso continuo, favorendo invece gli scambi tra gruppi strumentali nelle altre tre.

  • Questa ricerca di carattere nazionale è riuscita?

Penso di sì, nelle danze e nelle diverse “sonade” la definizione delle caratteristiche di ogni nazione è molto marcata ed efficace. Sicuramente Couperin era ben consapevole delle diverse forme di musica da camera e riesce in ogni parte ad evocarne il sapore, come la suite spagnola, dal carattere nobile e intenso.

  • Per suonare Les Nations collaborerà con il suo ensemble Les Concerts des Nations, che non a caso è dedicato a quest’opera. Qual è il collegamento?

In realtà è assolutamente un caso. La nascita ufficiale de Le Concert des Nations fu nel 1989 e ci rendemmo conto che su 14 musicisti avevamo 10 diverse nazionalità. Il disco con Les Nations era uscito già nel 1983, il ricordo era fresco e l’ensemble non aveva ancora un nome, dunque l’associazione è stata facile. Eravamo veramente un ensemble multiculturale, come Les Nations di Couperin. E lo siamo ancora oggi, il primo flauto è americano, il primo oboe italiano, il clavicembalo è tedesco, la tiorba catalana…

  • Forse nell’83 era diverso, ma oggi si sente la provenienza geografica dei musicisti?

No, decisamente no. Oggi siamo tutti musicisti europei. Forse qualche differenza si può ancora trovare, i musicisti latini e in generale mediterranei mostrano una libertà e una comunicazione maggiore rispetto alla disciplina e al rigore dei musicisti nordici. Ma a ben vedere è difficile generalizzare, ciò che conta non è la nazionalità, ma l’idea di musica di ogni singolo interprete.

  • Ha parlato di approccio mediterraneo, una caratteristica cui è associato da decenni. Ma in cosa consiste?

Posso parlare per me e il modo in cui io intendo il termine, ovviamente. Per me, esiste un primo momento, che è quello della preparazione, in cui si elabora l’idea di ciò che si vuole fare, un concetto il più rigoroso possibile, aderente ad ogni più piccola indicazione che trovo studiando sui manoscritti autografi, per seguire tutte le indicazioni di articolazione, dinamica, fraseggio. Il secondo momento, che è dove emerge questo aspetto che potremmo dire “mediterraneo”, è quello del concerto. Quando si suona è importante lasciare che sia la musica a parlare, seguire ciò che ci dice, dando libertà e spazio all’improvvisazione. Quando hai lavorato a sufficienza su ogni dettaglio, arriva il momento in cui è la musica a cominciare a parlarti e a dirti “qui più, qui meno” con totale naturalezza. È come nelle relazioni, d’amore o d’amicizia, se non senti ciò che ti dice l’altro non è possibile alcuna relazione. Una relazione è fatta di ascolto e reazione e così funziona il nostro rapporto con la musica.

  • 1983-2023, sono passati 40 anni dall’incisione de Les Nations. Come si è evoluta questa relazione?

Non lo so! (ride) Ad essere sincero, credo dovrò scoprirlo direttamente a Lugano. Però non credo sarà poi così distante dall’incisione. Quando arrivo ad un’incisione, il percorso di studio e approfondimento è già molto elaborato. Nell’83 abbiamo inciso Les Nations, ma erano già più di 10 anni che ci lavoravamo. Ciò che si sente sul disco è già una versione matura, frutto di anni e anni di riflessione. E quando lavori per questo tempo e con questa dedizione, poi trovi alcuni elementi che percepisci come “giusti” e tornano sempre uguali.

  • Cosa intende?

L’esempio per eccellenza sono i tempi. I tempi che scelgo sono il frutto di lunghe riflessioni e, anche a distanza di decenni, quando riprendo un brano mi riscopro ad usare esattamente gli stessi tempi. Quando fai tua la musica, ci potranno essere fattori che cambiano (i musicisti con cui suoni, le sale, le acustiche) ma alcune cose restano dei punti fermi.

  • Mi permetto di provocarla: questo non comporta il rischio di fossilizzarsi?

Non credo, anche perché non riascolto mai ciò che ho fatto in passato prima di riprendere un brano, ricomincio sempre dalla parte. Ma noto che le idee sul carattere di una musica rimangono quelle, sempre. Certo, a volte in base all’acustica il tempo di un movimento o di un’aria può oscillare, ma il punto di equilibrio è sempre il tempo che ho identificato, non importa quanti anni fa.

  • Quando avete inciso Les Nations il mondo era un posto diverso e forse si stava andando verso un disgelo e un’apertura al dialogo. Oggi vede più chiusura, rispetto al passato?

Sì, purtroppo stiamo scivolando verso una chiusura protettiva. Abbiamo paura di perdere la nostra cultura, la nostra identità, una paura da cui nascono pericolosi nazionalismi. Dobbiamo ricordarci sempre che la grande forza dell’Europa è la nostra diversità, che la musica è un linguaggio europeo da centinaia da anni e che la musica polifonica, in cui le voci dialogano, fa parte di noi. Monteverdi, Vivaldi, Bach, sono tutti compositori europei. Non devi essere italiano per capire Corelli, non devi essere tedesco per capire Mozart, la musica di appartiene a tutti e chiede l’apertura, il dialogo tra culture. Anche quando, come oggi, per paura di guerra, crisi, immigrazione, conflitti di classe, ci chiudiamo nei nostri piccoli mondi, impauriti di fronte alle culture diverse.

  • Cosa può fare un musicista?

Suonare. Penso che la migliore azione sia sempre mostrare che con la musica possiamo portare pace, conforto, dialogo. Io in primo luogo, oltre al mio repertorio classico e barocco, propongo spesso concerti con musicisti dalla Turchia o dai paesi arabi, con programmi misti tra le diverse culture. Recentemente ho fatto un concerto con quattro donne musiciste, rispettivamente da Iran, Afghanistan, Siria e Palestina, perché portassero le loro musiche e mostrassero il loro modo di pensare la loro cultura. Credo che ci sia bisogno di spazi così per lasciare spazio al dialogo, alla conoscenza e alla comprensione

  • D’altronde, la paura deriva in primo luogo da ignoranza.

Assolutamente sì. E più una persona è ignorante, più rischia di diventare un fanatico, che è il rischio più grande. Fanatismo e intolleranza, entrambi figli dell’ignoranza, non ti permettono di comprendere la ricchezza di questa nostra società. In un certo senso, l’ignoranza è una forma di negazione della realtà. La musica, ascoltarla ma soprattutto farla, può essere una soluzione. Un ragazzo che fin da bambino ha suonato, che ha fatto coro, orchestra, musica nelle sue forme più disparate sarà più facilmente una persona aperta, capace di dialogare, anziché chiudersi nel proprio mondo.

  • Crede che l’avvento di internet abbia creato questo distacco, in parte?

Oh, internet è un disastro. Si crede di essere in contatto con il mondo, ma non è un vero contatto, non è un vero dialogo. La comunicazione umana, tra persone vive, che comunicano una di fronte all’altra, che creano una prossimità fisica e una relazione di simpatia umana, quello non è sostituibile. Ma internet è un disastro anche perché apre molte porte e alcune di queste porte sono molto pericolose. È una questione complessa, ma sono profondamente convinto che l’intelligenza artificiale renderà il mondo un posto infernalmente difficile. Per fortuna, per il momento possiamo continuare a pensare alla musica! (ride)

Alessandro Tommasi

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