Marco Angius: «Non si può far musica con la musica»

Alla vigilia di due importanti appuntamenti alla testa dell’Orchestra di Padova e del Veneto, il 22 e il 24 febbraio prossimi, incontriamo Marco Angius, che dell’OPV è Direttore Artistico e Musicale dell’OPV, nonché interprete acuto e promotore della musica d’oggi, per porgli qualche domanda sul programma dei concerti e su quel che riguarda lo stato dell’arte del panorama musicale in Italia e non solo.

  • Da quando, nel 2015, ha assunto la Direzione Artistica della OPV le stagioni sono sempre state caratterizzate da un titolo e da un Leitmotiv; quelli di quest’anno sono “Teatri del Suono” e le tre Leonore beethoveniane più, ovviamente, l’ouverture “definitiva” del Fidelio. Da dove deriva questa scelta, che trovo particolarmente stimolante?

Programmare significa in qualche modo comporre e ricomporre percorsi stilistici, ma anche individuare richiami in cui il pubblico possa muoversi come in una galleria di suoni. I compositori si rispondono attraverso le varie epoche e l’esplorazione di un repertorio è simile a un viaggio nel tempo dove siamo archeologi ma anche astronauti. I teatri del suono riguardano il suono come rappresentazione e le sue vicende più astratte: cosa succede quando un brano viene percepito come evento acustico auto-significativo, svincolato dalla componente visiva originaria? C’è un’allusione monteverdiana ai madrigali rappresentativi e non a caso il prossimo aprile ci sarà una nuova lettura del Combattimento: le composizioni in cui la parola -che prima di essere testo è suono- risalta in tutta la sua portata drammaturgica, non sono necessariamente legate alla scena anzi si può verificare il fenomeno inverso: la scena (mentale) viene destinata ad eventi puramente acustici.
Beethoven rappresenta un caso emblematico e insieme a Mahler è forse il compositore che più ha condotto il linguaggio musicale ai limiti della sua molteplicità significante di teatro strumentale: tenendosi a una certa distanza dal belcanto, Beethoven compone e decompone i materiali musicali in modo nevrotico, per urlare al mondo la propria condizione di esaltazione o abbattimento disperato. Anche in Mahler abbiamo sinfonie che sono costruite come scene d’opera in cui i soggetti sono incarnati dal compositore stesso, dalle sue visioni e dai sogni riversati nell’esperienza compositiva: una sorta di diario intimo che si converte in narrazione universale.

  • Nel concerto in programma il prossimo 22 febbraio all’auditoriom “Pollini” di Padova si ascolteranno in prima assoluta i Sette Intermezzi da Il suono giallo di Alessandro Solbiati. Quando si trae qualcosa da un lavoro precedente generalmente si finisce, direi provvidenzialmente, non per ricalcare ma per creare qualcosa di nuovo; mi vengono in mente, per dirne una, i Four sea inteludes di Britten nei quali ritroviamo echi del Peter Grimes e non l’opera in quanto tale. Come ha lavorato Solbiati sulla musica precedente, che lei diresse alla Prima Bolognese?

È esattamente il nocciolo del problema: si può finalizzare il linguaggio musicale? Secondo me l’opera è incompiuta per definizione e sfugge al controllo del suo artefice passando di volta in volta in mano altrui (l’interprete). È un destino che terrorizza alcuni compositori viventi che non si fidano (talvolta a ragione) di avere qualsiasi interprete e finiscono col legarsi a quelli di fiducia. Cosa accadrà a un brano musicale quando incontrerà il mondo? Il compositore, tuttavia, non possiede altro che la propria creatività e ingegno combinatorio, secondo me. Le recenti esperienze di OPV con Abyss di Donatoni o lnori di Stockhausen hanno mostrato anche questo lato ineffabile della musica d’oggi.
Con Solbiati abbiamo iniziato a collaborare nel 2004 e c’è stata subito una speciale sintonia che si è felicemente realizzata anche nel Suono giallo. Come sostiene lui stesso, l’ascolto di lntermezzi estrapolati dall’opera originaria corrisponde a «un’ombra privata dell’oggetto che la causa». In questo caso, l’esito formale è indipendente dalla volontà dell’artefice e ciò costituisce un esperimento percettivo affascinante.

  • Il programma, oltre alla Leonore III, forse la più “concertistica”, mi passi il termine, delle quattro ouvertures, comprende la Settima di Beethoven, che secondo me è il trionfo di Dioniso. Quali i punti di contatto, oppure di contrasto con la pagina di Solbiati?

Beethoven pensa in termini di logica compositiva assoluta. Taglia e cuce i circuiti motivici della propria sintassi, crea ostinati incandescenti e mozzafiato (si pensi al finale della Settima che lei ha citato), frammenta il discorso musicale (come nei silenzi stupefatti e interrogativi della Leonora ll), sospende il tempo e crea profondità acustiche spaziali (nei richiami fuori scena delle Leonore, ad esempio, distesi sopra tappeti accordali metafisici degli archi), insomma esplora tutti quegli aspetti che sono oggetto di indagine elettiva anche per un compositore d’oggi. Eseguiremo -come al solito- la Settima sinfonia senza interruzione, come un unico movimento: qualcuno, vedendo giusto, ha notato in questa scelta un’analogia con la struttura formale che sarà propria della Quarta di Schumann. Per me costituisce un’intuizione di collegamento consequenziale, come se un movimento sia l’antefatto del successivo e da questo non scindibile. Al di là delle differenze e distanze epocali, la musica di Solbiati presente inquietudini simili, una ricerca instancabile sulle problematiche compositive e un interrogarsi sull’eterna partita tra suono come evento e materia suscettibile di organizzazione formale.

  • Sabato 24 lei e Solbiati sarete protagonisti di una delle Lezioni di sabato (Ripetizioni di Musica al Liviano), durante la quale saranno eseguite e raccontate la Leonore I,II e III. Che cosa succederà esattamente?

SI tratta di una formula già collaudata nelle Lezioni di suono: un compositore invita il pubblico ad accedere ai fenomeni musicali con esempi dal vivo parlando in questo caso della musica altrui attraverso i meccanismi che contraddistinguono la propria. Col pubblico di Padova, in particolare, stiamo sviluppando un rapporto di curiosità e affetto fuori del comune. La prima parte della Stagione ha avuto risposte di partecipazione elevatissima pur puntando esclusivamente a titoli del Novecento. Con le tre Leonore si tratta di entrare nel laboratorio operativo di Beethoven e nella peculiare riscrittura di uno stesso pezzo -le successive ouvertures del Fidelio- dall’ambigua collocazione, sospesa cioè tra funzione drammaturgica e destino sinfonico. Ho in mente in futuro anche una sorta di match tra due compositori ai lati opposti dell’orchestra che si affrontano davanti al pubblico esponendo ciascuno la propria visione del suono/mondo con esempi in tempo reale. A parte il fatto che Solbiati è anche protagonista di una fortunata serie radiofonica di ascolti guidati, credo che un compositore sia la figura più adatta a parlare di un altro compositore perché riesce a immedesimarsi di più nei processi creativi dell’elaborazione musicale.
In queste ripetizioni di sabato al Liviano il pubblico si trova inoltre a più stretto contatto con l’orchestra in un rito misto tra lezione e concerto. Un approssimarsi più immediato all’esperienza sonora, insomma.

  • Un’ultima domanda. Lei è da sempre interprete attento e promotore del repertorio contemporaneo; qual è lo stato dell’arte per quel che riguarda la produzione di nuova musica in Italia, facendo anche un parallelo con quel che avviene all’estero?

Solo a Padova in circa due anni e mezzo, oltre a numerose commissioni di novità assolute, abbiamo prodotto quattro nuovi CD (Donatoni, Sciarrino, Dallapiccola e Togni) e siamo prossimi alla terza serie televisiva di Lezioni di suono oltre che a un’integrale discografica dell’opera pianistica di Niccolò Castiglioni. Abbiamo in cantiere numerosi progetti entro il 2018 e il rilancio dell’Orchestra è avvenuto quasi paradossalmente con la musica contemporanea, a dispetto di chi la considera invisa al pubblico.
La dimensione e la sostanza della programmazione è fondamentale per un dialogo col pubblico senza il quale la musica contemporanea non potrebbe avere una diffusione significativa negli spettacoli dal vivo.
In Italia, ho letto di recente, ci si preoccupa addirittura di cancellare ogni traccia di musica contemporanea d’arte nei cartelloni di festival che invece dovrebbero promuoverla per statuto: è un’azione ideologica che considera la ricerca sperimentale del secondo Novecento come una musica non grata o, peggio ancora, da negare storicamente. E cosa si offre in cambio? Non una musica naturalistica ma un brodo sonoro che accelera lo scioglimento dei ghiacciai. È davvero il ridicolo che sorpassa il catastrofico. Dunque se guardassimo questi orientamenti ci sarebbe da preoccuparsi rispetto all’andamento internazionale.
Recentemente ho sottolineato come la musica contemporanea presenti un legittimo fronte archeologico, di riscoperta del recente passato, e uno più attuale che trova proprio nel teatro musicale le maggiori chances di guardare avanti.
Di certo, non si può far musica con la musica.

Alessandro Cammarano

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