Messer Marco Miliòn! Cont’ a nu un busiòn!, una playlist virtuale per il Mercante-Poeta

Secondo una graziosa fantasia apocrifa di Henri Cordier, editore nel 1902 di una pregevole edizione critica del Milione, i monelli di Venezia non erano mai sazi di udire i racconti di viaggio di Marco Polo, ma – come la maggior parte dei loro concittadini adulti – li consideravano “busioni”, grosse bugie. Come dargli torto? Prendiamo la descrizione di una crudele battaglia combattuta nel 1286 fra il Khağán Kublai (“re dei re”, ma “Grande Cane” nella disinvolta traslitterazione poliana) e un vassallo infedele: 760.000 cavalieri tartari in campo da ambo le parti in fremente attesa del rullo di nàccaro [timpano] che dava inizio alle ostilità. “E ciascheuno cavaliere avea uno pedone in groppa con suo arco in mano”; nel frattempo tutti cantavano ad alta voce accompagnandosi “su certi loro strumenti a due corde [balalaike?], cosa assai piacevole a udirsi”.

Altrove si evocano i sontuosi banchetti alla corte di Cambaluc [Khanbaliq], dove ogniqualvolta il Gran Signore alza la coppa alle labbra “tutti gli stormenti suonano, che ve n’à grande quantità”. Non saranno mancate le rauche trombe tibetane né la piccante zurna a doppia ancia e chissà cos’altro ancora, visto che Kublai si circondava di “saracini”, cristiani nestoriani e lama buddhisti provenienti dai quattro angoli di un impero esteso dalla Polonia alla Cina, dalla Siberia alla Birmania, dalla Mesopotamia all’Himalaya. E si narra dei concerti che il Veglio della Montagna, capo della setta degli Assassini, offriva ai suoi adepti per meglio plagiarli: “quivi era donzelli e donzelle, li più begli del mondo, che meglio sapeano cantare e sonare e ballare”; beninteso alla maniera persiana con santur, liuti e ribeche. E poi degli spiriti che cantano nel deserto di Lob-Nor, dove “ode l’uomo molti istormenti in aria e propiamente tamburi”. Degl’idolatri del Turkestan, “uomini di grande solazzo, che non attendono se no a sonare in istormenti e ‘n cantare e ballare” offrendo poco decentemente le proprie mogli agli ospiti di passaggio. Dei “magi e incantatori di diavoli” nella provincia di Ardanan, incuneata fra Birmania e Yunnan, che curano gli ammalati con riti sciamanici: “eglino suonano loro stormenti, e cantano e ballano; quando ànno ballato un poco, e l’uno di questi magi cade in terra co la schiuma a la bocca e tramortisce, e ‘l diavolo gli è ricoverato in corpo”. Dei funerali nella “sopranobile città di Quinsai” [Hang-chow] dove i dolenti vestiti di sacco accompagnano il defunto alla pira “sonando stormenti e cantando loro orazioni d’idoli”, mentre nella notte risuonano i gong che battono le ore fra i 12.000 ponti di pietra e le torri di guardia. Delle vergini sacre del Coromandel, India meridionale, che danzano e cantano ignude nel tempio per riconciliare il dio con la dea sua consorte; dunque sitar e tabla, raga e tala all’uso della musica karnatika.

Di tante musiche udite, raccontate o immaginate risuonano le pagine del Milione nelle sue circa 150 redazioni manoscritte lunghe e brevi. A testimonianza – variamente filtrata dalla sensibilità di compilatori e traduttori dall’originale stesura in langue d’oïl – di una cultura medievale aperta a interessi enciclopedici che svariano dall’economia alla geopolitica, all’arte militare, alle credenze religiose, alla dieta, agli stili di vita. Se vi aggiungiamo altre musiche di cui il Viaggiatore non parla ma che “non poté non udire”, appare còmpito disperato la costruzione di una colonna sonora intonata al respiro universale alitante nel Libro delle meraviglie del mondo.

Sulle galee che solcavano il Mediterraneo da Venezia verso il Levante, e che nel 1298 si scontrarono a morte coi Genovesi in quella battaglia navale di Curzola da cui Marco tornò in catene a dettare le sue memorie in un carcere, suonavano pifferi e trombe, tamburi, timpani, “corni saraceni” e quant’altro fosse utile ad animare i rematori e intimidire il nemico; lo attestano i cronisti Joinville e Marin Sanudo il Vecchio. Durante i solenni pontificali a San Marco e nella cattedrale di San Giovanni d’Acri, ultimo avanzo del regno crociato di Terrasanta, echeggiavano certo da gran tempo i capolavori della prima polifonia di Notre Dame. Non più di otto cantori, maschi e ragazzi, bastavano per intonare graduali e alleluia da due a quattro voci tratti dal Magnus liber organi di Leoninus, Perotinus e seguaci: un repertorio che ornava le melodie gregoriane con forme e tecniche quali discantus, conductus, copula, clausula, hoquetus. Al discantus nota-contro-nota su modi ritmici esattamente codificati si alternava lo stile più libero dell’organum: tenor a note lunghe fiorito dalle altre voci con raffiche di melismi in cui naufragava dolcemente la semantica del testo. Fra gli ascoltatori anche il ragazzo Marco? Difficile pensare il contrario.

                  Sul finire del Duecento, tramontate le pretese universalistiche di Papato e Impero sotto i colpi dei liberi Comuni, delle Signorie e delle monarchie nazionali (in primis la francese e l’aragonese) ovunque maturavano rivoluzioni. Rimpatriato nel 1295 dopo 27 anni d’assenza, il Viaggiatore poté accorgersi che il vento stava mutando anche in campo musicale? Qui c’imbattiamo in un’insidia delle pur utili periodizzazioni manualistiche. Dante moriva nel 1321, Marco Polo nel 1324; al triennio 1319-21 risalgono appunto i due trattati Notitia artis musicae di Johannes de Muris e Ars nova di Philippe de Vitry, da cui si fa datare non già la nascita ma la sistemazione teorica di un nuovo stile musicale e di un sistema di notazione atto a registrarlo. Ars nova versus Ars antiqua, così come in campo letterario si era parlato di “volgare illustre” e di “dolce stil novo”.

                  A complicare le cose vennero le sofisticherie di alcuni musicologi di vecchia scuola anglosassone, che vollero distinguere due Artes Novae distinte e distanti per forme metriche, sistemi di notazione, lingua dei testi intonati: l’italiana influenzata da moduli trobadorici e popolari, la francese derivata per li rami dalla precedente scuola di Notre Dame. Tale teoria appare oggi in declino grazie alla scoperta di nuove fonti musicali, ma soprattutto di attestazioni indirette come quella di Immanu’el ben Šelomoh, alias Manoello Giudeo, poeta romano che descrive con floride onomatopee la vita musicale alla corte veronese di Cangrande della Scala, il piccolo Grande Cane d’Occidente. Nelle 53 quartine del suo poemetto in stile giullaresco intitolato Bisbidis compaiono fra l’altro “Vïole et flaùti/ voci alt’ e agute”; poi “bon cantori con intonatori”, “trovatori” e torme di “Tedeschi/ Latini et Franceschi/ Fiammenghi e Ingheleschi”. In siffatto crogiolo multiculturale potevano mancare occasioni di assimilare le ultime tendenze della musica d’oltralpe? Verona e Padova distano da Venezia assai meno del Cathay; due i periodi di speciale fervore che l’anziano messer Marco, ormai comodamente installato nel suo palazzo a San Giovanni Crisostomo, potrebbe aver colto per una visita turistica: le “corti bandite” di Cangrande nel 1309-18 e le feste padovane del 1305, quando il 25 marzo s’inaugurò la Cappella degli Scrovegni con l’esecuzione del mottetto politestuale a tre voci Ave Regina celorum, una novità dell’avanguardista magister Marchetto.

Ipotesi non documentate, si dirà; buone per una playlist ma non per una seria ricostruzione storica. Alla prima basta dar conto, magari a prezzo di qualche veniale stiracchiamento cronologico, di un’atmosfera sonora nella quale il Viaggiatore fu immerso dall’adolescenza alla terza età: danze e canzonette amorose, devote laudi di pellegrini e marinai, ballate “in lingua francescha”, mottetti isoritmici dove lussureggiava il raffinato intellettualismo del nuovo contrappunto franco-fiammingo. La playlist si potrebbe estendere a dismisura, così come smisurata fu l’esperienza di vita del Mercante-Poeta. Infatti, per dirla con un codice veneto del Milione, “non fo nesuno homo, nì cristian nì pagan, nì altra zente del mondo che tanto vedesse e zerchasse delle diverse parte del mondo e meraveie chome à fato questo misier Marcho Pollo”.

 Carlo Vitali

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