Roberto Frontali: «Ritornare a Donizetti è un po’ come ritornare nelle braccia di un padre»

Fraseggiatore finissimo, cultore della parola cantata, attento nelle scelte di repertorio Roberto Frontali è interprete ideale del ruolo-titolo nel Belisario – che sarà eseguito in forma di concerto prossimo 21 novembre nell’ambito del Festival Donizetti Opera – sostituendo l’indisposto Placido  Domingo. Lo abbiamo raggiunto per fargli qualche domanda, non solo sul Belisario. 

  • Il Festival Donizetti Opera 2020 segna un’ulteriore rinascita per Bergamo. La restituzione alla città del Teatro Donizetti completamente restaurato non sarà esattamente come la si sarebbe voluta ma è in ogni caso un segnale forte di ripresa. Come ci si sente ad essere parte di un’occasione così densa di significato?

Purtroppo quest’anno tutte le iniziative e tutte le manifestazioni culturali sono sottoposte alle regole di contrasto dell’epidemia che penalizzano in modo profondo tutto il mondo dello spettacolo ed in particolare lo spettacolo dal vivo. L’opportunità’ di essere qui a Bergamo assume per me quindi un significato particolare. Proprio da questa città che ha cosi sofferto è bello poter ripartire con un teatro rinnovato che è simbolo di rinascita per il mondo dell’opera lirica e dello spettacolo dal vivo nel suo complesso.

  • A ripercorrere la sua carriera, dalla Agnese di Hoenstaufen che la vide debuttare nel 1986 all’Opera di Roma, si può dire che le radici in cui affonda il suo repertorio sono profondamente belcantiste. Quanto gioca il Belcanto nell’affinamento della tecnica vocale e quanto è utile nelle scelte successive?

Il BelCanto è stato la mia palestra di esecutore e lo ritengo fondamentale nella mia formazione. Ritornare a Donizetti è un po’ come ritornare nelle braccia di un padre. Ho cantato molte sue opere all’inizio della mia carriera. Con L’elisir d’Amore ho debuttato al Met e alla Staatsoper di Vienna; ho cantato Lucia e Don Pasquale alla Scala e poi tante volte Roberto Devereux con delle regine del calibro di Raina Kabaivanska, Mariella Devia ed Edita Gruberova; cantanti che hanno fatto la storia dell’opera lirica. Inoltre ho avuto anche il grande privilegio di poter cantare sotto la direzione di un altro grande bergamasco, il maestro Gavazzeni artefice della Donizetti Renaissance.

  • Belisario è opera della piena maturità di Donizetti e nasce in quel formidabile periodo che va dal 1835 al 1840 in cui si concentrano capolavori assoluti del teatro in musica della prima metà dell’Ottocento. Qual è il suo approccio al personaggio?

È un’opera sorprendentemente ricca sia musicalmente che drammaturgicamente. Mi dispiace sia uscita dal repertorio. Pur non avendo una vera e propria aria chiusa, il ruolo di Belisario ha delle pagine molto interessanti dal punto di vista interpretativo e credo che la mia lunga esperienza nel cantare i ruoli di padre verdiano mi abbia aiutato a calarmi subito nel personaggio così diviso tra l’amore per la patria e gli affetti privati. Altra curiosità è che l’antagonista del baritono qui è il soprano e non il tenore, come succede nel repertorio romantico.

  • Continuando a parlare di figure paterne: il protagonista è con tutta probabilità il primo padre del melodramma; da lì a pochi anni verranno i grandi padri verdiani a cominciare da Oberto – che è del 1839 – per arrivare a Rigoletto. Quanto secondo lei Verdi gode dell’eredità di Donizetti?

Belisario è sicuramente antesignano dei padri verdiani. Non posso fare a meno di pensare a Simon Boccanegra, anche lui diviso fra dover di patria e sentimenti privati, oppure a Miller nella Luisa Miller nel grande duetto con la figlia “Andrem raminghi e poveri…”, ma anche ai padri mancati come Macbeth, nella scena del pugnale e del racconto della morte di re Duncano, paragonate alla scena del sacrificio del pargoletto Alessi. Nell’opera ci sono due grandi duetti uno con Alamiro – il figlio nascosto – di carattere eroico, come nel Don Carlo e l’altro con la figlia Irene. Belisario è un super padre, un padre al quadrato.

  • A sostenere il ruolo-titolo nel Belisario avrebbe dovuto essere Placido Domingo: è difficile sostituire quasi “in corsa” un collega?

Domingo è insostituibile, è la storia dell’Opera degli ultimi 50 anni. È amato e apprezzato da tutti, sia dai suoi colleghi e ovviamente dal pubblico. Ho avuto tante occasioni di lavorare con lui, al suo fianco, sotto la sua direzione e anche nei teatri che lui ha diretto. Ho sempre avuto un rapporto straordinario con lui, il suo amore per l’opera si diffonde come un’energia positiva verso tutti quelli che gli sono vicino. Altre volte abbiamo condiviso lo stesso ruolo da quando lui ha affrontato il repertorio baritonale e per me sostituirlo è un grande onore.

  • A bruciapelo: in questo periodo emergenziale è meglio un’opera in forma di concerto o in allestimento semiscenico?

L’importante in questo momento è essere presenti su tutte le piattaforme possibili, ricordando che il teatro dal vivo non è sostituibile con nessuna forma alternativa. Ci sono opere che reggono molto bene in forma di concerto, come le opere di Bellini o anche il Rossini serio e altre invece dove è fondamentale la messa in scena. La mancanza di contatto fisico imposto dalle regie “covid” rende la voce unico strumento espressivo ed emotivo.

  • Chiudiamo in polemica: lo spettacolo dal vivo è in grande sofferenza – ove più ove meno a dire il vero – in tutto il mondo. Si sarebbe potuto fare di più perché ciò non accadesse, soprattutto qui in Italia dove gli aiuti al settore sono stati tardivi?

Si poteva fare sicuramente di più per tutelare tutto il settore ed in particolare anche la nostra categoria che è stata abbandonata a se stessa, non solo dal punto di vista remunerativo ma anche formativo. Penso ai tanti colleghi giovani che si sono impegnati nel loro studio e nella loro formazione e che improvvisamente si sono trovati senza lavoro e senza una vera alternativa, con il rischio di dover cambiare il loro progetto di vita e riconvertirsi, una vera sciagura. D’altra parte bisogna anche considerare il fatto che l’epidemia ci sottopone a dei rischi che bisogna ben ponderare. Non è tanto il pubblico ad essere a rischio contagio ma i lavoratori nel loro complesso. Mi auguro quindi che si prendano sempre tutte le precauzioni necessarie per consentirci di lavorare con la massima sicurezza, ma non fermiamo il teatro.

Alessandro Cammarano

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