Roma: Giovanna d’Arco tra angeli e demoni

Dopo un anno e mezzo di pandemia, Il Teatro dell’Opera di Roma riapre le porte per accogliere il suo pubblico col teatro pieno, rimettendo in scena, per la prima volta dal 1972, la Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi. La nuova produzione diretta dal Maestro Daniele Gatti, con la regia e la coreografia di Davide Livermore, ha coinvolto un cast di alta classe: il soprano georgiano Nino Machaidze nel ruolo del titolo, il tenore Francesco Meli nel ruolo del re di Francia Carlo VII, il grande baritono Roberto Frontali in quello di Giacomo, padre della Pulzella d’Orléans.  Gatti, che ha esordito dirigendo quest’opera a 22 anni, e a metà degli anni Novanta l’ha portata al Covent Garden dove era direttore ospite principale, ha diretto l’Orchestra dell’Opera di Roma con la consueta maestria. Grazie al suo meticoloso lavoro di scavo è riuscito a restituire tutte le infinte gamme di una partitura che intreccia di continuo la dimensione demoniaca della sinfonia iniziale, quella pastorale della vita agreste e della ingenuità della Pulzella, e quella guerresca e militare dell’eroina nazionale della monarchia medievale in lotta contro gli Inglesi.

Davide Livermore, lavorando a tempo di record (visto che l’Aida, inizialmente   in programma, è stata rinviata al 2023 per non gravare sulla preparazione del Giulio Cesare di Giorgio Battistelli, per la regia di Rober Carsen, con cui il 20 novembre s’apre la nuova stagione) ha combinato con eleganza e grande efficacia  l’astrazione e  la semplicità, riprendendo elementi già utilizzati al Palau  de les Arts Reina Sofia  di Valencia e proposti l’estate scorsa per la regia delle Coefore Eumenidi al Teatro Greco di Siracusa. Così ha creato una scena unica, immersa nel buio, dove una serie di cerchi concentrici vede agitarsi angeli e demoni, e sfilare re e soldati, mentre dall’alto, una sfera rotante sospesa nel vuoto, proietta a ritmo continuo i video di D-Wok, con le immagini di una farfalla che batte le ali, dei gigli d’oro  lambiti dalle fiamme, della corona di Francia che si dissolve, degli alberi di una foresta, di un rosone medievale, del volto di Cristo Pantocrator, mentre all’inizio e alla fine compaiono in sovrimpressione alcune frasi tratte dagli scritti della Pulzella d’Orléans.

E pensare che la fama della Giovanna d’Arco è sempre stata controversa. È una delle cinque opere composte da Verdi negli “anni di galera” da lavoro forzato, con cui il maestro di Busseto rispondeva alla pioggia di commissioni da parte dei principali teatri di Italia. Andò in scena al Teatro alla Scala il 18 febbraio 1845, tre mesi dopo l’ultima recita dei Due Foscari all’ Argentina di Roma. E Verdi subito   telegrafò all’amico librettista Francesco Maria Piave: “E’ la migliore delle mie opere, senza eccezione e senza alcun dubbio”. Che forse esagerasse, magari per placare il dissidio nascente coll’impresario milanesi Merelli, con cui rimase in freddo disertando per anni la Scala, è il dubbio dei tanti musicologi che hanno sempre storto in naso di fronte a un’opera considerata “un campione di alato nonsense romantico” (Osborne), e si sono chiesti (Isotta) come avesse fatto il Maestro, sempre tanto difficoltoso sul libretto, a accettare  una “simile spazzatura” propinatagli dal librettista Temistocle Solera.

In effetti, se l’opera di Verdi riprede la tragedia di Friedrich Schiller, riducendo drasticamente i personaggi da 25 a 5, di cui tre principali, introduce anche non poche incongruenze: la Pulzella di Orleans qui si innamora addirittura del re di Francia, anziché del nemico inglese. E l’evoluzione psicologica dei personaggi risulta bloccata, tanto che Giacomo, il padre, passa dal ruolo di implacabile accusatore della figlia, secondo lui in preda al demonio, a quello di traditore della patria, visto che consegna la povera fanciulla al nemico, per assurgere infine alla catarsi del pentito senza ravvedimento, visto che finirà lui stesso per condannare la Pulzella all’estremo sacrificio sul campo di battaglia del nemico, onde salvare la vita del re di Francia.

E comunque lo spettacolo al Teatro Costanzi è stato un successo. Trionfo per la direzione impeccabile di Gatti. Grandi applausi per la regia e le coreografie di Livermore che, mano nella mano con la direttrice del corpo di ballo del Costanzi Eleonora Abbagnato, ha puntato sulla dimensione mistica, sul contrasto interiore tra sacro e profano, anziché sull’aspetto risorgimentale del riscatto della patria ferita, inventando movimenti scenici lussureggianti anche a costo di inattesi assembramenti dei vescovi con tanto di mitra e volto velato di nero al momento della consacrazione.

Sul piano vocale, magistrale la prova del baritono Frontali, protagonista e motore dell’intera drammaturgia. Ottima la performance del tenore Meli. E nonostante la timidezza della presenza scenica, convincente, talvolta sino alla commozione, come per esempio in “Sempre all’alba” cavatina del primo atto, il debutto di un soprano leggero come Nino Machaidze in un ruolo da soprano drammatico.

Marina Valensise
(17 ottobre 2021)

La locandina

Direttore Daniele Gatti
Regia e coreografia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Anna Verde
Luci Antonio Castro
Video D-Wok
Personaggi e interpreti:
Carlo VII Francesco Meli
Giovanna Nino Machaidze
Giacomo Roberto Frontali
Delil Leonardo Trinciarelli
Talbot Dmitry Beloselskiy
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Maestro del coro Roberto Gabbiani

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