Verona: c‘è del buono nell’Amleto

Le opere scomparse sono una miniera molto vasta, quasi mai ricca. All’ingrosso, si dividono in due grandi categorie: quelle che all’inizio hanno conosciuto un’attenzione anche notevole e più o meno duratura, ma poi sono finite nel gorgo dell’oblio e quelle che invece hanno avuto vita grama da subito, per così dire sono tramontate ancora prima di sorgere. Con poche eccezioni, le opere scomparse che oggi, parsimoniosamente, vengono considerate degne di una riesumazione (termine appropriato, visto che si parla di titoli morti…) sono tuttavia d’autore. Ed è questo dettaglio che nella maggior parte dei casi rende possibili tali recuperi: si tratta di titoli di compositori noti, celebri perfino, che hanno sfornato capolavori più o meno stabilmente nel repertorio. Andare a cercare nel loro retrobottega appare giusto e doveroso, al massimo ci si rifugia nella consunta etichetta di “opera minore”.

L’Amleto di Franco Faccio, libretto di Arrigo Boito, appartiene alla seconda categoria, quelle delle opere sulle quali il sipario è calato definitivamente fin da subito. E non si può nemmeno definire un lavoro d’autore. Per il semplice fatto che segnò la fine della appena cominciata carriera di compositore del musicista veronese, che dopo lo scacco depose la penna e impugnò definitivamente la bacchetta. Peraltro, affermandosi ben presto come uno dei direttori più importanti nel secondo Ottocento non solo italiano.

Era la stagione di Carnevale 1870-71 alla Scala quando la tragedia lirica tratta dalla celeberrima opera di Shakespeare cadde miseramente. Il fiasco era da imputare soprattutto al fatto che il cantante che interpretava il ruolo del titolo era malato, quasi afono, e praticamente non aveva intonato nulla, al massimo l’aveva detto, o borbottato. Ciò nonostante, Faccio prese una decisione drastica, a vederla oggi decisamente sproporzionata e immotivata: mai più avrebbe composto un’opera. Eppure, alla sua prima apparizione, nel 1865 al teatro Carlo Felice di Genova, il lavoro aveva avuto un più che discreto successo e ottenuto la non generica benevolenza della critica.

Per molti aspetti, l’episodio appare caratteristico, quasi sintomatico della vita febbrile e sfortunata di Faccio, nato a Verona nel 1840 e morto in un ospizio per dementi a Monza nel 1891, dopo essere stato una figura centrale nella Milano della Scapigliatura, legato a filo doppio alla figura di Arrigo Boito, che non a caso a lui consegnò il primo significativo lavoro librettistico, ma anche un protagonista primario nell’attività della Scala. La malattia lo costrinse ad abbandonare il podio in età ancora giovane, impedendogli di diventare figura centrale – per fare solo un esempio – nell’interpretazione del suo amico e compagno di scorribande a Bayreuth, Giacomo Puccini. Un ruolo che sarebbe toccato ad Arturo Toscanini.

Faccio e Boito cercavano la versione nazionale dell’opera del futuro, e non la trovarono (la caduta della prima versione del Mefistofele, fra l’altro, risale al 1868), ma ascoltare oggi l’Amleto suscita sensazioni ben diverse da quelle abituali al cospetto di opere risucchiate dall’oblio e occasionalmente restituite al pubblico.

Oltre i motivi d’interesse della partitura in quanto tale – che non sono pochi – viene infatti da chiedersi che cosa avrebbe fatto Faccio nei vent’anni che gli restavano da vivere, se non avesse deciso di chiudere con la composizione. Perché questo Amleto si può ben considerare un inizio straordinariamente promettente, al quale lo stesso suo autore ha tolto ogni futuro. Un “plot” degno della più tenebrosa letteratura scapigliata.

Sta di fatto che la prima rappresentazione italiana in tempi moderni di questo Amleto – ottima iniziativa della Fondazione Arena, la cui sovrintendente Cecilia Gasdia già dagli anni del Covid inseguiva l’idea di questa riproposizione – ha rivelato al teatro Filarmonico il singolare talento di questo autore il cui catalogo è costituito da due titoli in tutto (il primo è I profughi fiamminghi, di un paio d’anni precedente, testo di Emilio Praga). E ha chiarito anche la qualità già ben definita del suo librettista, Arrigo Boito, che un quarto di secolo più tardi avrebbe messo a disposizione di Verdi la sua magistrale “visione” di Shakespeare, ma qui già dimostra di avere messo a fuoco una linea guida mai rinnegata. Come osserva Guido Salvetti, uno dei pochi studiosi che si è occupato di quest’opera, «la scelta di base, rivelatrice di nuovo impegno, è l’esplicito riferimento alla grande opera letteraria di un grande autore, nell’evidente convinzione che l’opera in musica non avesse esigenze tanto proprie da non poterne ricevere tutta la complessità concettuale e drammatica». Il che non toglie che il “marchio” dell’autore sia ben visibile in un vocabolario che va dall’originalità all’immaginifica astrusità, in una versificazione franta, tutta intessuta di rime interne, di irruente forza evocativa teatrale.

Si può immaginare che Faccio, alle prese con un libretto del genere, abbia dovuto affrontare non pochi problemi, specialmente considerando la rotta dell’opera italiana – cioè verdiana – dopo la metà del secolo. Lo si nota in una certa irresolutezza nell’abbondonare gli schemi formali di tradizione, che emergono di tanto in tanto – e specialmente quando in scena c’è Ofelia, titolare del resto di una bellissima scena prima della sua morte. Ma in generale si ascolta un declamato franto, duttile, scenicamente pervasivo, nei momenti migliori fortemente drammatico, che corrisponde alla densità dei versi di Boito e solo in pochi momenti si concede all’aspetto sonoro del recitativo di tradizione. Del resto, la scrittura per l’orchestra è l’elemento più affascinante di quest’opera: nell’accompagnamento delle voci per la varietà e la profondità; nelle pagine solo strumentali (Preludio e momenti sinfonici che contrappuntano sapidamente l’azione, con il clou della Marcia funebre per il funerale di Ofelia) per un’efficacia espressiva che verrebbe da definire “europea”. Non si trattava solo – per gli autori – di disegnare la via italiana al grand-opéra, ma anche di far scoprire al pubblico che esisteva un drammaturgo di nome Wagner, sia pure con tutte le distinzioni possibili e inevitabili. Senza nascondere i “debiti” con il Verdi specialmente di Rigoletto e di Traviata. Progetto forse troppo precoce, comunque rimasto lettera morta.

Lo spettacolo al Filarmonico era firmato da Paolo Valerio, che ha proposto di questo Amleto una lettura sorvegliata e nitidamente modellata sulla narrativa di Faccio e Boito, non priva di dettagli dai quali è emersa la colta dimestichezza del regista con il soggetto scespiriano (e basti citare la scena della morte di Ofelia, risolta in simbolica semplicità di gesti e oggetti scenici). Una certa staticità nelle scene di massa, specialmente all’inizio è apparsa superata assai bene nel quarto e ultimo atto, prima con il corteo funebre per Ofelia suggestivamente giocato in movimenti reali del coro e meccanici della piattaforma rotante di palcoscenico, e poi nel dinamico svolgimento del duello fatale fra Amleto e Laerte, che si conclude in carneficina e nel compimento della vendetta del Principe di Danimarca nei confronti dell’usurpatore assassino di suo padre.

Adeguato l’immaginario per lo più astratto, con varie digressioni opportunamente naturalistiche, definito nel projection design di Ezio Antonelli (luci di Claudio Schmid), che ha limitato la scenografia allo stretto necessario degli arredi scenici e degli oggetti-simbolo. Compreso un cappio molto “scapigliato” nel monologo celeberrimo, “Essere o non essere”. Intriganti le proiezioni della partitura manoscritta di Faccio ai cambi di scena. Divaganti e piuttosto banali invece i costumi in “approssimazione moderna” con varie licenze, firmati da Silvia Bonetti.

Sul podio è salito Giuseppe Grazioli, direttore principale dell’Opéra Saint-Etienne, che della partitura di Faccio ha proposto una lettura discretamente articolata nei tempi e nelle dinamiche, non sempre stagliata al meglio sul piano timbrico, attenta a una scrittura come quella dell’autore veronese che passa dalle soluzioni quasi cameristiche ad aperture a piena orchestra di forte impatto. L’attenzione all’originale di Faccio è emersa anche nell’utilizzo – come prescritto – di un piccolo ensemble in palcoscenico al secondo atto, nella scena della rappresentazione teatrale a corte, e nell’equilibrato rapporto con la banda fuori scena.

Il protagonista nel ruolo del titolo era Angelo Villari, che si è proposto con adeguata intensità espressiva e multiformità di fraseggio, mantenendo giustamente fuori dal caricaturale le fin troppo spinte sottolineature della follia di Amleto che attraversano il libretto, dimostrandosi a suo agio in una vocalità tenorile che tende a sottrarsi allo stereotipo romantico e spesso ci riesce. Ofelia era Gilda Fiume, voce dal timbro suggestivamente umbratile, linea di canto elegantemente drammatica; la Regina Geltrude Marta Torbidoni, che ha unito alla buona presenza scenica l’efficace sottolineatura sul piano vocale delle contraddizioni drammatiche del personaggio. Bene anche il Re Claudio, Damiano Salerno, che ha reso con sofferta immediatezza i contrasti che attraversano l’usurpatore, fra protervia, sensi di colpa, disperazione.

Fra gli altri, da citare lo Spettro di Abramo Rosalen, voce tenebrosa ed evocatrice, il Polonio insinuante di Francesco Leone, lo sprezzante Laerte di Saverio Fiore, i compunti Orazio e Marcello di Alessandro Abis e Davide Procaccina. Completavano il vasto cast Enrico Zara (un araldo), Francesco Pittari (il Re di Gonzaga), Marianna Mappa (la regina), Nicolò Rigano (Luciano), Maurizio Pantò (un sacerdote) e Valentino Perera (primo becchino). Il coro dell’Arena, istruito da Roberto Gabbiani, è parso prendere confidenza con la partitura e le esigenze sceniche man mano che lo spettacolo procedeva, dopo un inizio alquanto contratto e qua e là impreciso, fino a un magistrale quarto atto.

Alla prima, pubblico folto, prodigo di applausi a scena aperta e di consensi per tutti alla fine.

Cesare Galla
(22 ottobre 2023)

La locandina

Direttore Giuseppe Grazioli
Regia Paolo Valerio
Scene e Projection Design Ezio Antonelli
Costumi Silvia Bonetti
Luci Claudio Schmid
Responsabile dei movimenti mimici Daniela Schiavone
Personaggi e interpreti:
Amleto Angelo Villari
Claudio Damiano Salerno
Polonio Francesco Leone
Orazio Alessandro Abis
Marcello Davide Procaccini
Laerte Saverio Fiore
Ofelia Gilda Fiume
Geltrude Marta Torbidoni
Lo Spettro Abramo Rosalen
Un Araldo Enrico Zara
Il Re di Gonzaga Francesco Pittari
La Regina Marianna Mappa
Luciano Nicolò Rigano
Un Sacerdote Maurizio Pantò
Primo Becchino Valentino Perera
Orchestra e coro dell’Arena di Verona
Maestro del coro Roberto Gabbiani

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